- Non posso esprimermi per l’universo femminile, per quel mistero, anche invidiato a volte, che si chiama maternità, dal concepire al portare in corpo, al partorire, all’allattare, e così via.
- La paternità è l’improvvisa scoperta di un’oltremisura rispetto alla nostra esistenza. Esiste una posta molto più grande di quello che pensavamo, una fortuna spropositata da giocarsi.
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Vivere dentro più vite, avere più destini. Per amore, certamente, ma anche con la consapevolezza che una vita soltanto è poca cosa. Avere più esistenze dentro epoche ed età diverse.
Un’allegoria. Ma innanzitutto una premessa doverosa. Non posso esprimermi per l’universo femminile, per quel mistero, anche invidiato a volte, che si chiama maternità, dal concepire al portare in corpo, al partorire, all’allattare, e così via.
Ho vissuto quella simbiosi dalla parte di chi viene portato in grembo, come tutti, nel ruolo di figlio cresciuto dallo stesso respiro della madre. Premesso questo, si metta in scena l’allegoria. Il protagonista della nostra storia è un uomo occidentale, vissuto in una media agiatezza, di anni trenta all’incirca. Il nostro prototipo, un po’ per ignoranza, il resto egocentrismo, ha vissuto il suo primo trentennio credendo ciecamente a questo racconto fatto da altri: il monte più alto della Terra, provare per credere, è il Cervino. Quattromila quattrocento e rotti metri.
Alla soglia dei trent’anni, ma oggi più di ieri anche ben oltre, il nostro uomo arriva a piantare la sua personale bandierina in cima alla montagna.
Ha raggiunto quello che doveva raggiungere. Il peggio è alle spalle. Ora inizia la discesa, pericolosa, ma mai come la salita. Per passare da paesaggio montano a marino: è il momento di tirare i remi in barca.
Non invitato, si avvicina al protagonista un uomo apparentemente molto più vecchio di lui, in realtà solo più stanco, che gli indica con dito tremante un altrove all’orizzonte, dove si erge una montagna disumana. Lo sconosciuto, quasi impaurito, gli dice nell’orecchio: «Non per rovinarti la festa, ma il Cervino è una collinetta rispetto a quello. Si chiama Everest. Ottomila e ottocento metri».
Un senso di vertigine. Poi rabbia.
Allora non è finita? Allora tutto quello che ho fatto? In cui ho creduto? Io pensavo di essere arrivato. Ecco cosa dice il nostro soggetto quasi piangendo.
La paternità è l’improvvisa scoperta di questo, definiamolo così, errore di misurazione. Forse, meglio, la presenza di un’oltremisura rispetto alla nostra esistenza. Da allegoria montana a pokeristica. Esiste una posta molto più grande di quello che pensavamo, una fortuna spropositata da giocarsi.
Vivere attraverso altre vite, moltiplicare i punti di vista sulla realtà, arrivare sino al vertice dell’orrore, come chi tocca il grado di dolore più alto che esista nel mondo animale. La malattia di un figlio. Il dolore che si abbatte sui generati. L’azzardo, dunque, non si vivrebbe tanto per obblighi mammiferi, la perpetuazione della specie, quanto, come ogni azzardo che si rispetti, per il desiderio di accrescere la nostra fortuna.
Vivere dentro più vite, avere più destini.
Per amore, certamente, ma anche con la consapevolezza che una vita soltanto è poca cosa. Avere più esistenze dentro epoche ed età diverse. Stare in un ufficio, da adulto dedito alla sua vita, e contemporaneamente in una classe di quinta elementare, dove una maestra ci chiede la tabellina del cinque, imparata sino a mezzanotte la sera precedente.
Essere tanti e diversi.
Per egoismo, anche, perché no? La paternità è pure questo, per molti soprattutto questo. Smontiamo il sentimentalismo borghese. Si fanno figli nella speranza che un giorno, quando le nostre mani non riusciranno più ad afferrare il senso delle cose, quei figli restituiranno un grammo di devozione e presenza. Quale padre può dirsi estraneo a questa speranza? E dove sta scritto che questa speranza sia di per sé maligna? Continuando nell’esercizio del puro egoismo, non di meno della pluralità di vite che ha la fortuna di vivere un padre, vogliamo parlare di sogni? Anche a realizzarli, anzi soprattutto a realizzarli, quale fottuto obiettivo può dirsi al riparo dell’usura, della routine?
A quarantotto anni suonati chi mi permetterebbe di indossare un tutù su calze rosa e immaginarmi nel ruolo di prima ballerina alla Scala? E vivere, con disperazione molto più disperata di quella che avevamo per noi e i nostri sogni infranti, il giudizio di una maestra di danza che ci comunica che noi siamo nel ballo come elefanti in una cristalleria? Essere tanti, essere i nostri figli, come siamo stati i nostri genitori.
Ma si può essere tanti tradendo pure, perché no, quel filo di sangue verticale che ci unisce di generazione in generazione. Quanti vivono meravigliosamente in questo modo? Quanti senza passare attraverso la propria figliolanza si accrescono comunque? Chi stabilisce la strada più giusta? Chi risponde con certezze assolute non è diverso da chi si racconta che il Cervino è la montagna più alta della Terra.
Quello che conta è non essere uno solo.
Questo testo è tratto da I figli che non voglio, a cura di Simonetta Sciandivasci, pubblicato da Mondadori.
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