Dicono che per rendere i bambini intelligenti bisogna fargli ascoltare Mozart nella pancia. Mia madre, quando mi aspettava, andò a un concerto dei Mano Negra e a uno dei Pogues, infatti sono cretina e mi piace la birra.

Dopo lunghe elucubrazioni, io questa settimana ho portato il mio feto di sei mesi a sentire Paul McCartney a Parigi, e quindi anche lui a sua volta non sarà un genio. Le mie incertezze comunque ruotavano soprattutto intorno a quanto questa decisione mi qualificasse come pessima madre ancora prima di mettere alla luce il mio primo figlio, ma dopo aver valutato la sicurezza delle condizioni con il personale medico che mi segue e la quantità di errori che questa persona non ancora nata potrà comunque rinfacciarmi nella vita, ho infine deciso che ne valeva la pena. Uno in più cosa vuoi che sia.

Va poi detto che McCartney ha l’età di mia nonna e, per quanto sia ancora in forma smagliante, sapevo che non avrei pogato sottopalco. Ha l’età di mia nonna e questo significa anche che non so quanti altri tour mondiali avrà voglia di fare o, augurandogli di campare ancora a lungo, sarà in vita per fare. Sarebbe peraltro stata la seconda volta che mi perdevo un suo concerto seppur in possesso dei biglietti: la prima era stata nel 2020, un graditissimo regalo del Natale precedente che grazie al COVID-19 sarebbe diventato una pratica di rimborso molto laboriosa.

Stavolta sono rimasta incinta circa tre giorni dopo essermi aggiudicata i biglietti di Parigi, tale dev’essere stato il nostro entusiasmo per avere una seconda occasione di vedere questo vecchio signore importante dal vivo. La felicità era vieppiù incontenibile dopo Get Back, le otto splendide ore di documentario sugli ultimi Beatles uscite su Disney+ nel 2021, che mi avevano permesso di decretare definitivamente che Paul è, dopotutto, il mio preferito.

Quindi, insomma, con il mio fidanzato e un utile amico medico di pronto soccorso, mercoledì sono andata alla Défense Arena per assistere a un pezzetto di storia. Non sapendo che sarei stata al sesto mese di gravidanza, a giugno ci eravamo procurati dei biglietti per il parterre, una prospettiva che alla luce dei recenti sviluppi e di una panza di dimensioni considerevoli ora mi allettava assai poco.

Ma la gravidanza non è solo vomito ed emorroidi, ha anche i suoi vantaggi, basta saperli sfruttare. La pancia è infatti un saltacoda formidabile, e mentre la gente era in fila al freddo dalle cinque della mattina, io e i miei compagni di viaggio siamo planati all’ingresso vip all’ora di apertura dei cancelli, insieme ai ricchi e ai disabili.

Nella categoria ricchi abbiamo subito fatto amicizia con una coppia di americani di New Orleans che avevano visto i Beatles nel ‘64 e avevano comprato i biglietti per la data parigina il giorno prima, avendo scoperto dell’evento per puro caso nel corso del loro viaggio ricreativo in Francia. Ci stiamo ancora chiedendo se i loro posti siano costati più o meno di un anno del nostro affitto.

Le nostre strade però si dividono poco dopo, ricchi e sedie a rotelle hanno ingressi diversi. La cosa non mi sorprende, “donne in gravidanza e disabili” è anche il ticket che ritiro al totem quando ogni mese vado in ospedale a fare gli esami del sangue. Capisco quindi che, per non perdere credibilità, è meglio non far sapere che quel giorno ho fatto diciassette chilometri a piedi e insieme ai due maschi di trentacinque anni nel pieno del loro vigore fisico mi metto in fila con gli sciancati.

All’ingresso 38 la situazione è un po’ a metà tra il bar di Guerre Stellari e un film di Fellini: in cima ci siamo io, un businessman nano molto nervoso e un signore giapponese che potrebbe avere tranquillamente centovent’anni e che comunque non sembra avere davvero bisogno del bastone a cui si appoggia. Il fatto che siamo tutti più o meno bisognosi di sederci non impedisce al personale di tenerci in piedi e al freddo per una mezz’ora, ma quando si sblocca la situazione cominciamo a pregustare i nostri privilegi.

Veniamo ricollocati nelle file della prima curva, convenientemente vicini a bagni e bar e quando entriamo gli spalti sono ancora vuoti, tranne per i nostri vicini di curva: una signora ultraottantenne che si è fatta trenta chilometri di Rer da sola per venire al concerto e si è portata da leggere un libro fotografico su Paul McCartney che sembra pesare più di lei; una coppia dalla Polonia, lei incinta, lui desideroso di parlarmi della sua passione per Umberto Eco; una donna molto sudata e munita di binocolo da opera che procede a sedersi e a puntarlo sul palco per le successive tre ore, anche ben prima che il concerto inizi.

Io parto male facendomi piangere da sola, interrogandomi sull’esistenza di quella signora con il coffee table book, chiedendomi perché nessuno, nessuno, ha accompagnato questa vecchia minuscola al cazzo di concerto della sua vita. Per fortuna la barriera linguistica mi impedisce di farle domande e di indagare oltre, e piango in silenzio mangiando un hamburger.

Mentre il palazzetto si riempie capiamo che quello non è né il bar di Guerre Stellari né un film di Fellini, bensì il reparto di geriatria. Non che il parterre sia il regno della Gen Z, il pubblico di un artista di ottantadue anni non è quello di Taylor Swift, come era possibile immaginare.

Ma in un mare di capelli bianchissimi, felici di poter riposare le nostre stanche membra e i piedi gonfi come zampogne, io e gli altri due entriamo ufficialmente in una nuova fase della nostra vita. Una fase più comoda, ma anche più patetica. «Forse potevamo pretendere dei posti migliori» mi dice Francesco, ormai ubriaco di potere.

Mentre mi godo due ore e mezza di canzoni dei Beatles con un’emozione cieca che cancella tutto, anche il fatto che diversi membri del gruppo sembrino delle vecchie zie e che il chitarrista sia chiaramente Ridge Forrester, penso che McCartney a 82 anni è arrivato dal Messico da pochi giorni, continuerà ad esibirsi sera dopo sera in mezza Europa fino alla fine dell’anno, e nonostante tutto sembra stare molto meglio di me.

Stanno meglio di me le signore che sventolano le braccia intorno a noi, che sbraitano su Lady Madonna e fanno i video col cellulare e mezza mano a coprire l’obiettivo della fotocamera. Sta meglio di me la vecchia sola che si sfila dal macello poco prima della fine, risparmiandosi la fiumana all’uscita e lasciandomi con l’amarezza di immaginarla su un treno notturno che la riporta in una casa vuota.

Sta meglio di me la creatura che mi porto dentro, che magari non sarà il più intelligente di tutti ma potrà dire di aver sentito una leggenda dal vivo ancora prima di venire al mondo. O invece forse mi punirà per questo, costringendomi ad accompagnarlo ai concerti di Tony Effe, o di chiunque ci sarà al suo posto. Farà male a me, farà male a suo padre, ma noi, comunque, avremo sempre Parigi.

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