- La penultima illusione è un libro estremamente contemporaneo, che racconta il nostro presente senza un briciolo di retorica, un incontro di racconti in cui il presente rimanda al passato.
- A ottant’anni di età, nel 2019, Ginevra Bompiani ha accolto N., una ragazza somala che il gergo burocratico delle politiche migratorie classifica come «minore non accompagnato». A quel tempo N. aveva diciassette anni. Aveva trascorso quattordici mesi rinchiusa in un lager libico.
- «Ci sono le passioni e le azioni. Le passioni fanno soffrire e le azioni no. Io non ho mai avuto obiettivi. Andai da uno psicanalista perché mi pareva che la sua specialità fosse dare degli obiettivi. Ma io preferisco andare avanti».
A ottant’anni di età, nel 2019, Ginevra Bompiani ha accolto N., una ragazza somala che il gergo burocratico delle politiche migratorie classifica come «minore non accompagnato». A quel tempo N. aveva diciassette anni. Aveva trascorso quattordici mesi rinchiusa in un lager libico. Era fuggita dal suo paese, da sola.
Mentre N. compiva il suo lungo viaggio, Ginevra Bompiani, una tra le maggiori scrittrici italiane, aveva deciso di iscriversi a un corso per diventare tutore legale di minori stranieri.
Un giorno il tribunale la convoca e le viene assegnata una ragazza, che viveva in un centro di accoglienza nella periferia romana. Passano del tempo incontrandosi, finché un giorno Ginevra l’accoglie in casa a tempo pieno.
«Il nostro rapporto dura da tre anni», racconta adesso l’autrice di libri come L’attesa e MelaZeta, a lungo docente universitaria e fondatrice della casa editrice Nottetempo, ceduta poi nel 2015. «Ormai è maggiorenne, anzi ha appena compiuto vent’anni. Con la maggiore età il tutoraggio è finito ed è cominciata questa specie di maternità sui generis, anche un po’ intermittente. In un certo senso c’è stata un’evoluzione nel nostro rapporto, come la puntina di un giradischi che scava un solco sempre più grande». Il solco è raccontato nel suo ultimo libro, La penultima illusione, appena uscito per Feltrinelli.
Un incontro di racconti
Un libro di bellezza estrema, che si muove su un doppio binario: da una parte il rapporto di Ginevra e N., la lenta ricognizione umana in territori sconosciuti, il confronto, le fughe, le incomprensioni, le ore liete, il lockdown passato insieme, il Ramadan che entra in casa, insomma l’incontro tra due storie diversissime, che la Bompiani racconta con irresistibile sincerità: «Lascio ardere la maternità mancata o approssimata e il mio modo di amare, ansioso, cauto e invasivo».
Sull’altro fronte, un libro costruito sulla memoria di una lunga storia e di una famiglia molto importante per la cultura italiana, «Io non lo vedo come un memoir» puntualizza la scrittrice, nata a Milano nel 1939, secondogenita di Valentino Bompiani, il grande editore scomparso nel 1992 e del quale quest’anno ricorrono trent’anni della morte: «Vedo il libro piuttosto come un incontro tra diverse avventure, tra passato e presente. Ho poco il senso del tempo. Per me il tempo è un po’ come nell’inconscio, è tutto presente. Il libro è un incontro di racconti, che poi siano tutti veri, per quel che ne so, è un fatto. Ma del memoir non ha l’ordine, la metodicità, l’esaustività. Ci sono amici dispiaciuti di non essersi ritrovati. È vero, non ci sono persone che mi sono carissime, semplicemente perché dal presente non è rimbalzato un episodio che li conteneva. Ho proceduto con un ordine molto sommario. In campagna ho intorno due ettari e tante volte il giardiniere mi dice di fare le aiuole ordinate. Ma io non faccio così: il mio giardino lo tengo in disordine. Mi piace la molteplicità. In un certo senso è una protezione dai dispiaceri. Se tu tendi ad accogliere, ti arriva di tutto».
Occasioni mancate
La penultima illusione è un libro estremamente contemporaneo, un libro sul nostro oggi senza esserlo in maniera sbandierata. Ginevra Bompiani è riuscita a raccontare il momento che stiamo attraversando («la paura è il nostro Virgilio») narrando senza un briciolo di retorica il confronto tra culture, facendo ricorso a un sottile espediente letterario in certo modo proustiano, scartando piccole madeleine che ci riportano a momenti della sua lunga vita sparsi sul tavolo come fotografie.
In questo senso, nel raccontare le istantanee di una vita, è un libro sulla lotta perenne con le emozioni e le illusioni, sugli amori e sul rapporto durato vent’anni con il filosofo Giorgio Agamben, sulle lotte politiche del Sessantotto e del post Sessantotto, sulle voragini della sinistra («l’incapacità di rinnovarsi, di scegliere il nuovo popolo da difendere») e sulle amicizie, tante, diverse, un mondo di amicizie tra Milano, Roma, Parigi, Londra.
Racconta: «Da ragazza avevo quello stupido snobismo di alcune adolescenti, per cui gli amici importanti dei miei, no! Anche se a Guido Piovene e la moglie ero molto legata, così come a Raffaele La Capria. Ma Elsa Morante, Calvino, Giorgio Manganelli sono stati amici miei e di Giorgio mio marito. Manganelli era incantevole e difficilissimo. Per anni mi chiamava tutte le mattine alle otto meno un quarto, cosa che adesso non apprezzerei affatto! Negli ultimi anni poi basta. Il fatto è che io tendo a non chiamare. Se la persona c’è sono dedita. Se non c’è, no. Parlo spesso di occasioni mancate perché non mi sono attaccata all’uno o all’altro. Sono andata un po’ incontro a tutti. La vedova di Orwell, Sonia, per esempio: sono stata un po’ superficiale, sarei dovuta stare di più con lei alla fine, quando cadde in rovina. Dopo che mi sono sposata non ho più visto Ingeborg Bachman. L’amavo moltissimo. Ma io non mi rendo conto che possa dispiacere all’altro. Non accadde però con Elsa Morante, che non vedevo da un po’ di tempo perché quando tentò di suicidarsi vivevo in campagna. Passò i tre anni successivi in clinica e la vidi molto, ogni volta che andavo a Roma, ma ero a Parigi quando è morta. Le occasioni forse non sono proprio mancate, ma nemmeno catturate in pieno».
Leggiamo dunque una lunga carrellata di «occasioni mancate», che poi sono esperienze dove l’amicizia è sempre al centro, le persone sono fondamentali, per esempio Umberto Eco, entrato giovanissimo nella casa editrice Bompiani, dove anche Ginevra era andata a lavorare a diciannove anni, per poi lasciarla quasi subito in fuga verso Parigi.
«Non sono scappata, nel senso che ne abbiamo discusso per una estate intera, mio padre non era d’accordo, andai senza soldi e me la sono cavata. È stata un’eccellente fuga», ricorda con una risata. E insieme, abbiamo sotto gli occhi, cadenzata, la storia di N., la sua epopea, questa colossale ferita del nostro tempo, e la costruzione di un rapporto tra due donne fatto di mistero, e che racconta però un altro aspetto che ha segnato la vita di Ginevra Bompiani, l’apertura, sotto il motto di Wittgenstein: «Aspetti l’atteso ed è l’ospite che arriva».
Le passioni e le azioni
Non è infatti la prima volta che la scrittrice apre le porte di casa. Era successo negli anni Novanta con un ragazzo di Sarajevo, conosciuto durante un avventuroso viaggio che aveva fatto per portare soccorso alla biblioteca incendiata dai cecchini.
Si chiamava Senadin e rimase con lei a Siena, dove Bompiani insegnava all’Università, otto anni: «Decisi in cinque minuti», racconta, «sua madre mi disse: adesso che hai visto che ragazzo intelligente è, salvalo. E poi naturalmente è venuto a stare con me. Dopo otto anni è tornato nel suo paese, aveva preso la laurea in Filosofia, fatto il dottorato, trovato una moglie magnifica, fatto due figli. Con lui non ho neanche preso la decisione. Con N. ci ho messo di più, qualche settimana. Era una decisione grossa. Non sono né meditativa né contemplativa. Le decisioni sono semplicemente delle evidenze, e anche un non dire di no. Io tendo a non dire di no. Però non è che dico sì, a volte scappo. Però se posso dico di sì».
Ed ecco la seconda frase su cui si regge il libro, una frase di Boccaccio: «Meglio fare e pentirsi che non fare e pentirsi». Un istante, poi riflette: «Ci sono le passioni e le azioni. Le passioni fanno soffrire e le azioni no. Io non ho mai avuto obiettivi. Andai da uno psicanalista perché mi pareva che la sua specialità fosse dare degli obiettivi. Ma io preferisco andare avanti. Quello che mi spingeva era una notizia che mi arrivava e l’insopportazione di stare al di qua dello schermo e non vedere con i miei occhi, non partecipare. Andare a Sarajevo fu molto complicato. Il primo aiuto me lo diede Adriano Sofri e poi altri. Mi sono arrampicata con una decisione che non nasceva da un progetto».
E ricorda altri salti oltre lo schermo, come quando andò a Mogadiscio e a Merca per conoscere Annalena Tonelli, insieme a Starlin Arush: «Lei fu proprio un’amica. Ogni volta sento la ferita della sua morte. Entrambe furono ammazzate. Allora non mi rendevo conto che Starlin era una specie di bandiera della resistenza somala».
Tra passato e presente, tra un salotto londinese e una pista di sabbia africana, tirando ogni filo del racconto si scopre che è collegato a un altro. Citando Emily Dickinson, Ginevra parla di una vita «quasi dritta», come a fare dell’imperfezione, del «quasi», una sorta di sublime arte della sopravvivenza.
Le chiedo di N., risponde: «È ancora con me, ma sta per ripartire. È una novità di ieri. Le prime volte era proprio scappata. Poi dopo ha cominciato ad allontanarsi perché era più grande. Questa volta però gliel’ho chiesto, mi ha detto: no, questa volta non scappo».
Il 26 gennaio 2022 a Roma, alle 18 presso la Casa delle letterature, Ginevra Bompiani presenta La penultima illusione insieme a Paolo Di Paolo e Sandra Petrignani.
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