- Domenico Starnone è tornato recentemente in libreria con la nuova edizione per i tipi di Einaudi di uno dei suoi romanzi più importanti, Via Gemito, libro che vinse lo Strega nel 2001.
- Nei suoi temi – il rapporto con il padre, con Napoli, con l’arte e, soprattutto, con la realtà e con la finzione – Via Gemito appare come il perno attorno a cui gira l’intero corpus delle opere starnoniane.
- Questa intervista è la riduzione scritta, curata dall’intervistatore assieme all'intervistato, di una conversazione lunga circa due ore e disponibile in forma integrale su PDR, il podcast di Daniele Rielli.
Forse anche proprio in virtù di questa capacità di Via Gemito di sintetizzare in sé molti dei tratti centrali di un’intera carriera letteraria, la somiglianza delle ambientazioni, dei personaggi e delle situazioni con quelle dei libri di Elena Ferrante ha per prima suggerito a critici e giornalisti che proprio Starnone potesse essere Ferrante. Ipotesi confermata poi negli anni da nove diverse analisi statistiche e stilometriche, tra cui quelle dell’università di Padova e della start up svizzera Orphanalytics, misurazioni matematiche che sembrano lasciare solo due possibili vie d’uscita all’identificazione di Ferrante in Starnone: che Ferrante sia un nome collettivo, ma comunque con forte influenza starnoniana in tutte le sue differenti manifestazioni, o che sia il nome di un’autrice/autore inedito ma con uno stile singolarmente simile a quello di Starnone.
Le analisi peraltro indicano una somiglianza statisticamente maggiore fra lo stile di autori uomini e quello di Ferrante, un dato in disaccordo con quella parte della critica e del mercato che negli anni ha fatto di Ferrante una sorta di icona della letteratura al femminile, aiutati in questo da “un’inchiesta” patrimoniale dalla dubbia deontologia pubblicata dal Sole 24 ore nel 2016 e che indicava in Anita Raja, moglie di Starnone, la destinataria dei diritti d’autore di Ferrante.
Il diretto interessato da anni nega, prima con grande irritazione, ora con rassegnato fastidio, e a margine di questa intervista ha sostenuto che è già successo che analisi stilometriche sbagliassero attribuzioni di testi medievali. Dirimere la questione tuttavia sembra un esercizio sterile, non solo perché l’identificazione certa di Starnone con la Ferrante non aggiungerebbe molto – se non un’ulteriore prova di bravura, e nemmeno la più importante – alla carriera di quello che è in ogni caso uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, ma sarebbe per molti versi un atto antiletterario visto che molto più interessante appare semmai indagare la dimensione romanzesca di una vicenda in cui Starnone sembra infine essersi trasformato esso stesso in un personaggio, sia che il libro in questione sia stato scritto da lui o da altri.
Esito singolare eppure conseguente – con quella consequenzialità così tipica dei romanzi e così rara nella vita – per un autore che ha per tutta la sua importante carriera letteraria sovrapposto realtà e finzione, intrecciandole fino a renderle talvolta indistinguibili, senza però dimenticare mai, ed è questa forse la più preziosa eredità dell’opera di Starnone, che la letteratura non si esaurisce nel mero racconto dell’io, ma necessita strutture, narrazioni, capacità di immedesimarsi nell’altro e di mettere in piedi quel gioco di specchi in cui ci perdiamo per poi ritrovarci. Anche per questo può essere utile tornare alle pagine di Via Gemito ora che la nuova edizione riporta in copertina un particolare di un quadro chiamato I Bevitori.
Che cos’è I bevitori?
È un quadro di mio padre, che ha avuto una vocazione per la pittura sin da ragazzo. Si tratta di un’opera di discrete dimensioni a cui si dedicò nel 1952, quando io avevo 9 anni. Nella parte centrale di Via Gemito racconto la storia di quel quadro. Secondo mio padre I bevitori era stato esposto in una grande mostra napoletana e poi acquistato dal comune di Positano per centomila lire. Sia come persona che come personaggio del libro, io credevo poco a questa storia, perciò cercai di verificarne la veridicità chiamando il comune di Positano. Mi dissero che il quadro non c’era e questo scrissi nel libro. Poi Via Gemito uscì, vinse lo Strega e un giornalista fece un’ulteriore indagine riuscendo a trovare il quadro nel deposito del comune di Positano. Da allora è stato esposto nella sala del consiglio.
Lei credeva che suo padre avesse il talento necessario per diventare davvero un artista?
Via Gemito è un romanzo, mischia elementi biografici ad altri di finzione, necessari alla costruzione del racconto. Mio padre, nella realtà, possedeva un notevole talento, era molto intelligente, curioso di tutto, fantasioso al punto da perdere il senso della realtà. Ne sono stato affascinato, da ragazzo, e tuttavia l’ho temuto. Cambiava facilmente umore, specialmente con mia madre, con cui aveva un rapporto molto forte e affettuoso che però poteva diventare bruscamente aggressivo e in qualche circostanza violento. Nel libro il personaggio del padre oscilla continuamente tra verità e bugie, si aggiusta la vita per renderla più tollerabile, dice male dei parenti, della moglie, degli amici, soprattutto riassume in sé le sofferenze di coloro che per tanti motivi – povertà, formazione inadeguata, scarse opportunità, carattere non facile – si sentono non riconosciuti a sufficienza e vivono amareggiati, tra piccoli successi e molti insuccessi.
Un destino poco invidiabile.
Ma diffuso. Il talento e i successi dicono poco sui risultati reali che riusciamo a ottenere nel corso dell’esistenza. Né l’artista lodato né quello che non riesce ad affermarsi sanno mai se hanno davvero combinato qualcosa di decisivo. Oggi abbiamo molte ambizioni più o meno fondate, stimolate dall’istruzione di massa, e tanti, pieni di speranze, che rischiano di essere condannati a vite di scontento creativo. Sento il padre di Via Gemito come una sorta di precursore.
Non si è affermata anche una maggiore centralità culturale del concetto di autorealizzazione?
La vita di mio padre si colloca tutta nel Novecento. Di origini svantaggiate, di poca scuola, la sua smania di realizzarsi come artista era un’anomalia. A diciotto anni faceva l’operaio elettricista nelle ferrovie. Ma lui sentiva forte la sua vocazione e ci ha provato. Immagino che molti altri si sentissero dentro la stessa energia – forse tutti – ma poi per mille ragioni pratiche si finiva per soffocarla. Internet, oggi, potenzia l’emergere della voglia di realizzazione creativa, e in più chiudersi in un qualche lavoro è diventato sempre più arduo e comunque precario. Mio padre sentiva il suo lavoro di ferroviere come devastante, avrebbe voluto passare la sua giornata davanti al cavalletto a dipingere. Oggi il vecchio lavoro costrittivo è raro, il tempo libero è cresciuto, la spinta a vivere del proprio talento sta diventando un’esigenza, una richiesta di eccezionalità di massa.
Con la diffusione di queste ambizioni è come se ci fossero molti più contendenti per un numero di posti che rimane comunque limitato.
È un fenomeno che si manifesta nella prima metà del Novecento e che si irrobustisce nella seconda. Negli ultimi decenni siamo ormai in moltissimi a chiedere a tutti gli effetti il riconoscimento del nostro talento. Non ci vedo niente di negativo: nel corso dei secoli c’è stato uno spreco intollerabile di energie creative. Troppa gente non ha avuto modo neppure di provarci, se non, che so, zufolando mentre badava al pascolo.
Quanto l’arte è un fatto sociale? Quanto conta il riconoscimento? Nonostante tutto suo padre era molto felice quando leggeva i trafiletti sui giornali locali riguardo ai suoi quadri.
Sì, per mio padre vedere il suo nome sul giornale era una soddisfazione e una ratifica. I caratteri a stampa lo toglievano dal mucchio. Avevano l’autorità di dire a lui stesso e soprattutto agli altri che era un artista e che quando dipingeva non stava perdendo tempo. Il bisogno di essere riconosciuti è una meravigliosa necessità umana, chiudersi in una sorta di autocelebrazione del proprio talento oscilla spesso tra mediocrità e disperazione. Mio padre pensava che il talento fosse tutto, era quasi obbligato a pensarla così vista la sua storia personale. In realtà il talento non basta. Va coltivato, servono formazione, errori, attitudine a fare e rifare. Servono una buona cultura e una grande pazienza. È una consapevolezza che dovrebbe diventare di massa, almeno quanto è di massa la giusta ambizione a mettersi alla prova.
In che modo si è rapportato all’esperienza artistica di suo padre?
Da giovane, non ho voluto in nessun modo riconoscermi nella sua esperienza, ho coltivato sempre comportamenti molto diversi dai suoi. Ad esempio più lui si autoproclamava grande artista, più io mi addestravo a usare mezzi toni, a tenere sotto traccia le mie ambizioni. Invecchiando, però, mi sono reso conto che gli devo molto. Contraddittoriamente. Senza quel continuo insopportabile sbandierare il suo talento, per esempio, forse non mi sarei nemmeno accorto del mio. Le eredità immateriali contano, meschine o strepitose che siano. Il talento si nutre molto dell’ambiente in cui si cresce e la scuola, sì stimola, ma per ora è del tutto insufficiente di fronte alle disuguaglianze che contano. Se si è senza grossi privilegi, bisogna cavarsela da soli, ma cavarsela da soli è difficile. D’altronde, anche se si nasce in famiglie di grandi tradizioni, non è detto che vada meglio. Si rischia di essere stroncati dal peso dei privilegi. Insomma, la vita è difficile per tutti.
Nei racconti di suo padre c’è questo costante sovrapporsi e intrecciarsi dei piani della realtà e quelli della finzione, questo ha influenzato il suo lavoro?
Per reazione a mio padre sto molto attento, come persona, a non confondere realtà e finzione. Ma come scrittore lavoro in genere su un fondo di verità che potenzio con la finzione. Evito di parlare di autofiction, sono convito che scrivere sia da sempre questo: reinventare la nostra esperienza, darle senso grazie all’immaginazione.
Al tempo dell’uscita di Via Gemito il momento in cui il personaggio del narratore fa la sua comparsa nel romanzo fu visto con fastidio da alcuni lettori. Io leggendolo pochi anni fa non me ne accorsi neppure. Nel rapporto fra realtà e finzione c’è anche una componente storica?
Sì, quando la narrazione era già ampiamente avviata, e pareva una storia delle magie e dei terrori dell’infanzia, mi mettevo in scena adulto, raccontavo il mio viaggio a Napoli per verificare se la storia che stavo scrivendo sulla scia dei racconti di mio padre avesse fondamento nella città, nella sua topografia eccetera. Sembrava quasi darsi la zappa sui piedi complicando la vita al lettore. In effetti l’ingresso in scena di chi firma in copertina oggi è una diffusa tecnica di racconto.
Questo mutamento di sensibilità ha che fare con la centralità dell’autorealizzazione individuale di cui parlavamo prima? L’individuo oggi è più importane della collettività e quindi gode di più libertà anche nel racconto? Non sente cioè più l’esigenza di nascondersi attraverso quello che oggi verrebbe probabilmente percepito come esercizio di finta modestia?
Credo ci siano due necessità. La prima è ottenere la sospensione dell’incredulità (qualcosa di simile al manoscritto ritrovato, alle lettere rinvenute in un cassetto ecc.) attraverso tecniche che generano effetti di realtà. La seconda è il bisogno sempre più forte di dichiarare esplicitamente che siamo noi la materia del racconto, che la nostra esperienza, con nome e cognome, è esemplare. Qui da sempre il terreno è scivoloso. Dante stesso ha bisogno di numerosissimi filtri per arrivare, nella Commedia, a farsi chiamare per nome da Beatrice. Il rischio è rendere così “locali” i testi, da farli risultare insignificanti. Quello che conta di più, comunque, è la competenza letteraria: sì può fare di tutto con la parola, a patto di farlo con abilità. L’essenziale è sempre potenziare la sensibilità del lettore, il senso che ha di sé, senza annoiarlo.
Questa capacità della letteratura di illuminare la condizione umana è in parte minacciata dalle restrizioni, in particolar modo nel mondo anglosassone, che si vogliono imporre al punto di vista del narratore, ovvero l’obbligo per lo scrittore di muoversi solo nel proprio contesto di appartenenza, un contesto determinato di volta in volta ideologicamente (ad esempio; sesso, etnia, classe sociale ecc). Questo mi sembra pericoloso per due motivi: perché mette a rischio la capacità tipica della letteratura di indagare l’altro e perché impedisce di misurarsi su quella che è una delle abilità più importanti di uno scrittore, ovvero la capacità di mimesi.
Be’, già il trionfo del racconto autobiografico o finto autobiografico comporta il rischio che ogni operazione letteraria si impoverisca. Se a questo si aggiunge una norma non scritta, ma potente, in base a cui non posso raccontare un ammalato perché non ho quella malattia, non posso raccontare un diversamente abile perché non lo sono a mia volta, e così via, il risultato è che sto vietando il meglio del racconto, cioè quel guardarsi attorno, cercare un ordine, volgersi all’altro attraverso l’immedesimazione. Non c’è ancora il trasloco immediato nella mente altrui, la letteratura per ora è il mezzo migliore che abbiamo a disposizione. Per giunta non saprò nemmeno quanto ho affilato i miei strumenti letterari, se non esco da me di tanto in tanto.
C’è un problema di spettro di condizione umana raccontabile, che si riduce ai minimi termini, ovvero al mero narcisismo.
Sì. D’altro canto la discussione a cui stiamo accennando muove con qualche buona ragione dal tema dell’appropriazione. Se racconto lei, coi miei strumenti, riusando il suo linguaggio, i suoi problemi, il frasario del suo lavoro è come se abusassi di un mio potere per rubarle l’identità.
Così tra l’altro si riduce la persona alla sua categoria di appartenenza, scelta spesso arbitrariamente perché ognuno di noi appartiene a tante categorie contemporaneamente.
Se il problema è l’appropriazione indebita – grazie a una condizione di potere, agli strumenti maneggiati con arte – di sensibilità e culture e tradizioni e lotte che non fanno parte della nostra esperienza, la questione da affrontare è ancora una volta la disuguaglianza. Bisogna esigere che siano forniti a tutti strumenti adeguati per raccontarsi. Vietare il racconto è una pessima scorciatoia.
È anche un bias di disponibilità: è molto più facile inserire divieti nella lingua che agire concretamente sui problemi delle persone svantaggiate.
Detto molto banalmente è più facile costruire prigioni e manicomi, che andare a vedere quali sono i problemi che li generano e risolverli.
Questa intervista è la riduzione scritta, curata dall’intervistatore assieme all'intervistato, di una conversazione lunga circa due ore e disponibile in forma integrale su PDR, il podcast di Daniele Rielli
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