L’ultimo romanzo dello scrittore americano potrebbe davvero essere l’ultimo, come lui stesso ha dichiarato. Ma resta comunque una prova di resilienza oltre le avversità, una testimonianza di fiducia
In un racconto dello scrittore umoristico americano S.J. Perelman un uomo si sveglia la mattina del giorno del suo compleanno, solo, e giura che niente, per ventiquattro ore, potrà guastargli l’ottimismo. Non vuole pensare al recente divorzio, né alla custodia negata dei figli, né a una visita medica impellente, al lavoro frustrante, alla solitudine che lo attanaglia. Vuole godersi la sua giornata. Appena mette piede giù dal letto, però, cominciano i guai: una scheggia di legno gli si conficca nell’alluce, l’acqua calda finisce all’improvviso durante la doccia, gli viene notificata una multa, il caffè gli brucia la lingua, l’auto non parte, arriva in ritardo al lavoro e viene chiamato nell’ufficio del direttore del personale, e così via in una tragicomica escalation di sventure che lo portano, col sorriso stampato in volto, a chiedere di farsi ricoverare nel reparto psichiatrico di un ospedale. A ogni passo falso, quell’uomo si ripete: «Niente guasterà la mia giornata», dove l’accento cade su “mia”, perché l’essenza di libertà del giorno del suo compleanno è tutto ciò che gli resta. Quando la perderà, non gli rimarrà che farsi internare.
Il passato recente del romanziere Paul Auster non è stato caratterizzato da niente di nemmeno lontanamente comico. Senza entrare nei grami dettagli, la sua vita, dal compimento dei settantadue anni alla vigilia dei settantasette, è stata una spiacevole e rovinosa caduta. Un rotolare giù da un pendio irto di gobbe e pietre acuminate. Ha perso una nipote in condizioni tragiche, un figlio, e gli è stato diagnosticato un brutto male. Come il suo alter-ego Paul Benjamin nel film Smoke del 1995, scritto e co-diretto assieme a Wayne Wang, «Qualcosa è andato storto, ed è difficile da raddrizzare». Eppure, a quanto pare, lui ci sta provando.
Le prime trenta pagine del nuovo romanzo di Auster, Baumgartner – pubblicato da Einaudi per la traduzione di Cristiana Mennella – sono un incastro di piccole sventure, azioni rimandate e distrazioni che aprono una finestra sulla vita del protagonista: un professore di filosofia settantenne, vedovo, ottimista, che però non sembra riuscire a tenere assieme i lembi scollati di una difficoltosa esistenza recente. Non tragica, ma complicata. La moglie Anna, che nella finzione dovrebbe ricalcare i tratti di una poetessa che è stata fidanzata con Auster in gioventù, ma che somiglia sia a Lydia Davis, sia a Siri Hustvedt, è morta da dieci anni.
Troppo pochi per non sentirne la mancanza soffocante che costringe il vagamente compulsivo Sy Baumgartner a rassettare di continuo i suoi vestiti, passare in rassegna l’armadio, appiattire le pieghe dalla sua parte del letto. Un atteggiamento commovente e commosso, ma allo stesso tempo comicamente ripetitivo, che richiama il ripetersi delle giornate, l’incedere di una vita dopo la perdita e l’inevitabile inciampare, accartocciarsi su se stesso e sui propri pensieri. E troppi per non pensare con tenerezza, o forse un pelo di passione, alla giovane addetta alle consegne che due o tre volte a settimana gli porta i libri che Baumgartner continua a comprare sapendo che non li leggerà, solo per vederla comparire alla porta.
Auster è un teorico del caso, ma anche un entusiasta del destino. Ha sempre cercato di esplorare le pieghe e le infinite variazioni dell’influenza del trascorrere del tempo sulle vite dei suoi personaggi, da Leviatano a Invisibile, per poi, in 4,3,2,1 cimentarsi in una vera e propria rilettura continua della stessa esistenza. Non sempre la riuscita è stata all’altezza delle aspettative, soprattutto negli ultimi tempi. Ogni volta, però, ha dato prova di straordinaria resilienza nei confronti della sorte avversa, che di recente gli si è accanita addosso. Il fatto di tessere, creare e ricreare il destino dei suoi protagonisti è un esercizio che somiglia molto da vicino al filare delle parche che, consce della condanna che grava sulle loro teste, si dedicano a modellare le vite altrui, di tanto in tanto sollevando il coltello per tagliare qualche filo. Auster compie esperimenti vitali e, con un po’ di fortuna, trae qualche conclusione. Baumgartner ne è l’ultima prova.
Dopo un inizio rocambolesco che trascina Sy giù dalle scale e lo fa collassare sulle ginocchia sul suo vialetto d’ingresso in un succedersi ritmico di piccoli avvenimenti che marcano il tono del romanzo dandogli il colore di una commedia di Ernest Lubitsch o di una vecchia pellicola slapstick dei fratelli Marx, Auster frena all’improvviso e prende fiato. Non è, per la verità, un’inchiodata che lascia i segni dei pneumatici grattati sull’asfalto, ma una frenata decisa e decisiva che restituisce al protagonista il tempo per pensare: ai quarant’anni trascorsi con Anna, al vuoto lasciato dalla sua fine, al primo incontro e a quello che avrebbe potuto essere. Così comincia la riflessione. È un passaggio delicato, soprattutto dopo i trascorsi di Auster, che facilmente avrebbe rischiato di trasformarsi nel tentativo di lasciare un testamento letterario non richiesto e non necessario. Per fortuna, più che al vagamente deprimente Diario d’inverno, questo ultimo esile romanzo somiglia a Follie di Brooklyn, piccolo gioiello del 2005 con il quale condivide una sorta di amara allegria. La stessa di Smoke e Timbuctù. Non contiene gli esperimenti stilistici di Invisibile e 4,3,2,1 e lascia il postmodernismo a lato della pagina per focalizzarsi su una vicenda intima e personale, travestendosi da professore di Princeton quasi in pensione.
Nell’ultimo anno, tra la dipartita di Cormac McCarty e quella di Martin Amis, per citarne due che hanno lasciato uno spazio difficilmente colmabile nella letteratura anglosassone, la tendenza a interpretare le ultime opere degli scrittori come se fossero ultime memorie si è fatta piuttosto forte e pericolosa. Auster non dà l’idea di voler tirare le somme, ma di imbarcarsi in una riflessione sulla perdita. Che non è per forza e banalmente la perdita di una persona cara, ma anche la perdita di controllo di sé, di stabilità, di una visione oggettiva del mondo. Il romanziere canadese Mordecai Richler ha scritto: «L’errore sta nel giudicare una vita dall’ultima azione, che è anche la più disperata».
Ecco, se deve somigliare a qualcosa, Baumgartner ha molto in comune con La versione di Barney. È il dipinto divertito di un autunno incerto, durante il quale Sy prova dare un senso ai pezzi frastagliati di un puzzle del quale è certo di aver avuto la soluzione, ma non riesce più a trovarla. Se il fatto che l’elemento risolutivo della vicenda sembri arrivare dalla richiesta di un incontro da parte di una studentessa disposta a venirlo a trovare in New Jersey dal Michigan pur di discutere una vecchia poesia di anna può senz’altro essere considerato retaggio di una visione delle relazioni che appartiene a un’altra generazione, il modo di scartare di lato di Auster, evitando la caduta nella crisi di mezza età che ha toccato molti romanzieri venuti prima di lui, lo salva dalla banalità e salva i lettori da una probabile, non scontata ma possibile, delusione.
No, Baumgartner non è un testamento, anche se il suo autore ha annunciato che potrebbe essere l’ultimo libro. È comunque una ripresa. È il segno che chi ha fiducia nella propria scrittura può tornare sui propri passi e rivedere le proprie azioni per chiarirle e aggiustarle. Auster è sempre stato un riflessivo, un romanziere di pensiero e non di istinto e non si è mai fatto spaventare dalle semplificazioni di trama. Proprio come in Follie di Brooklyn il potere simbolico del rapporto tra un signore di mezza età, sfuggito a un cancro e scampato a un divorzio, e suo nipote tiene il passo di un’avventura picaresca e la rende una profonda riflessione sull’incertezza dell’esistenza, così Baumgartner incarna la lotta tra Auster e il sé che ha lasciato indietro, la solitudine di una vita di perdite e la mancanza di contatto con la letteratura pratica. Ha chiuso con gli esperimenti, e mentre la sua esistenza si sta, purtroppo, riducendo a un interrogativo, lui cerca di fissare i lembi e gli angoli scollati. Riuscendoci, per ora.
Come Barney quando ormai non ricorda quasi più niente e l’ottimista di Perelman, si presenta sulla porta dell’ospedale sorridendo: «Fatemi entrare», dice. «C’è qualcosa che devo mettere a posto».
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