La malnata (Einaudi, 2023), l’esordio di Beatrice Salvioni, classe ’95, nata a Monza, è in libreria da qualche settimana ma è già un caso editoriale. Venduto in 32 paesi ancor prima dell’edizione, in Italia è tra i libri più venduti e i diritti cinema sono stati opzionati: quello di Salvioni è un esordio da record.

La storia è quella di Francesca e Maddalena la malnata, tredicenni che abitano la Monza degli anni fascisti, ed è un racconto di amicizia e ribellione, scoperta di sé stessi e del mondo attorno. Un romanzo di formazione le cui protagoniste vedono i peccati degli adulti, dei genitori, e decidono di prenderne le distanze, di crescere sia scrollandosi di dosso i dettami prescritti sia anche perseguendo, con coraggio, i desideri che sentono bruciare nel petto.

Beatrice, tu sei nata e cresciuta a Monza, come le tue protagoniste: com’è stata l’infanzia lì, più simile a quella di Francesca o di Maddalena?

Da ragazzina ero più simile a Francesca. Vivevo con paura l’idea di uscire dai binari prestabiliti, e cercavo sempre di fare la brava bambina.

Per via delle pressioni esterne?

Sì, rispettavo le regole molto seriamente. E poi, sono venuta su con un timore religioso piuttosto forte.

Credi?

Sì, pure se ho dovuto fare un percorso lungo e complesso, per trovare la giusta misura nella fede. Quel che dico sempre è che credo in un modo eretico, e che se fossi nata nel passato mi avrebbero comunque messa al rogo.

Sei cresciuta in un ambiente molto religioso?

Ho frequentato sia le elementari sia le medie in istituti gestiti da suore.

Pure io, ma solo le elementari. Le ricordo come dei demoni baffuti.

La suora baffuta, e spaventosa, l’ho avuta anch’io! Un incubo che si chiamava suor Valeria: con lei la faida era personale. Mi puniva spesso, in modi crudeli. E così, una volta, le ho detto che lei era come la monaca di Monza.

Perché?

Mia nonna, maestra alle elementari, mi raccontava spesso de I promessi sposi e di questa suora triste, arrabbiata. Per me, bambina, fare il paragone con suor Valeria era facile.

Com’è andata?

Non l’avessi mai fatto.

Si è arrabbiata?

Inferocita.

Torniamo alle tue protagonista. Mi hai detto di essere stata più simile a Francesca. Sei tanto distante da Maddalena, quindi?

Sono più vicina a Francesca ma sono stata pure Maddalena: da piccola i giochi pericolosi li facevo anch’io, e come lei mi sporcavo nel fango dell’Ambro, mi arrampicavo in alto sugli alberi del parco di Monza, mi sbucciavo le ginocchia e i gomiti correndo in giro per la città.

Uno dei primi passi compiuti da Francesca verso l’età adulta è un allontanamento, fisico, dai genitori. Pensi che crescere sia anche questo, mettere una distanza da chi ci ha messi al mondo?

Per me è andata così, sono cresciuta di più in spazi di tempo brevi, dei periodi coincisi con i primi lontana dalla casa dei genitori. Sebbene abbia frequentato l’università a Milano, sono rimasta a Monza, ché conveniva fare da pendolare, e solo quando mi sono iscritta alla Holden di Torino mi sono allontanata dai miei. Quel periodo lo ricordo come di grande crescita: scoprire nuovi mondi, strade e dimensioni, è stato fondamentale. Ed è successo velocemente distante dal nido.

All’inizio del libro Francesca parrebbe averne un gran bisogno, in effetti.

Lei deve affrancarsi dal senso di vergogna che le instilla la madre, donna che l’ha ammaestrata all’idea che l’apparenza è tutto.

Le apparenze per la madre di Francesca sono fondamentali. Ma cosa c’è oltre questo gioco dei ruoli, a cui è tanto legata?

La vita pura, semplice: le apparenze sono celle che ci impediscono di scoprire chi davvero vorremmo essere. Avvicinarsi all’adultità significa pure prendere coscienza di quanto le pressioni esterne ci stiano strette, di come le apparenze non siano che ruoli imposti da chi ci sta vicino: nasci femmina devi obbedire, nasci maschio devi essere impermeabile alle emozioni.

Che la società posi su queste basi lo capiamo verso l’età di Francesca e Maddalena, e credo riverberi con forza nel libro pure per via del periodo storico in cui è ambientato.

In proposito: perché l’epoca fascista?

Proprio per questo: volevo scrivere di un tempo in cui quello di cui desideravo parlare risuonasse con vigore. Poi raccontare una storia collocata negli anni Trenta mi ha permesso di evidenziare le somiglianze con il contemporaneo.

Senti l’aria di quel periodo, oggi?

La gente cerca riparo nella chiusura quando c’è un clima di incertezza, penso sia umano. Una risposta alla paura è chiudersi, rifugiarsi nel guscio e guardare i propri piedi senza curarsi dell’altro. In tal senso l’aria di quegli anni la sento.

È stato un processo graduale per te o hai realizzato di doverti togliere di dosso le aspettative altrui in un’occasione specifica?

Graduale, come per Francesca. Lei ha la percezione che il mondo in cui vive le vada stretto, ma da sola non riesce a vederlo con la chiarezza necessaria per fare qualcosa a riguardo. Per cambiare ha bisogno di Maddalena.

Necessitiamo tutti della nostra Maddalena?

Nessuno si salva da solo.

Che poi, Maddalena ha bisogno di Francesca.

Certo: sono inscindibili. Una dicotomia: fanno da specchio l’una per l’altra e, mostrandosi a vicenda, si concedono di vedersi come mai hanno fatto prima.

Chi è arrivata per prima, Maddalena o Francesca?

Assieme, mi hanno accompagnata per lungo tempo. Solo oggi che La malnata è in libreria capisco che molte delle storie che ho scritto negli anni hanno loro per protagoniste.

Hai scritto dell’altro con queste due protagoniste?

Sì e no, nelle storie di cui parlo c’erano dei pezzi di Francesca e Maddalena. Una ribelle e disillusa, l’altra debole e spaventata. Con nomi diversi, in mondi paralleli a quello del romanzo, si erano già incontrate. Da ragazzina ho scritto una storia con protagoniste gli archetipi di Francesca e Maddalena che danno la caccia ai vampiri (ride, ndr).

La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, Acciaio di Silvia Avallone, Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, libri scritti che gli autori e l’autrice erano giovani, hanno in comune la presenza di due protagonisti. Nel tuo questo binomio torna: la dualità è un passaggio importante in scrittura?

Non sembra un’intervista, questa, ma una seduta di terapia (ride, ndr).

Possiamo andare avanti, se preferisci.

No, è interessante. In effetti, le storie di formazione che preferisco sono quelle corali, o comunque con più di un protagonista. It, il romanzo di Stephen King, Stand by me, film di Rob Reiner sempre da un racconto di King, I goonies di Richard Donner: le storie di formazione di impianto corale funzionano bene.

Nell’arte facciamo dialogare pezzi di noi altrimenti troppo distanti?

Pezzi di noi che senza la mediazione della scrittura non comunicherebbero.

Torniamo a Francesca. D’un tratto, sente addosso il rimorso di crescere: non riconosce il suo corpo. Ti è capitato?

A tredici anni: la prima volta in cui ho sentito il peso dello sguardo degli altri.

Cos’è successo?

Ero alle medie, all’ultima ora avevamo avuto la lezione di ginnastica e, visto che faceva caldo, dopo essermi cambiata in spogliatoio sotto la gonna non ho messo le calze. Tornavo a casa con le amiche, camminavo per le vie di Monza, quando un uomo ha preso a fissarmi le gambe come se del mio corpo fosse il solo pezzo importante, come se le mie cosce fossero tutto quel che contava di me. Mi sono vergognata, e così ho cercato di coprirmi, mi abbassavo la gonna, mi schermavo, e l’ho detto alle mie amiche. Loro, però, invece di condividere l’umiliazione che mi bruciava, mi hanno detto che avrei dovuto essere felice, lusingata perché avevo attirato l’attenzione di un maschio.

Reazione?

Ho detto loro che si sbagliavano, non c’era nulla di bello in quello sguardo. È stato un momento fondante, per la prima volta mi sono accorta di cosa volesse dire portarsi addosso la responsabilità del mio corpo di donna.

A proposito di sguardi. All’inizio del libro, Maddalena guarda Francesca e lei, Francesca, si sente vista. La prima volta in cui ti sei sentita vista?

Quando ho conosciuto Gaia, una delle mie migliori amiche. Eravamo al liceo, periodo in cui ho preso a vestirmi di nero, a sentirmi fiera di essere una strana.

Facevate molte cose assieme, avete legato subito?

Direi di sì, ci siamo aiutate a vicenda a superare quel delirio emotivo che è il liceo. Abbiamo pure scritto un fantasy assieme. Ci alternavamo, io un capitolo che poi le mandavo e lei quello successivo, e il racconto, pian piano, evolveva.

Vorrei leggerlo!

No, credimi: non vuoi.

Torniamo al libro. Noè è un personaggio atipico, rispetto agli altri maschi della storia - empatico, dolce: perché un personaggio così sensibile?

È il mio preferito. È l’opposto dell’ideale che impone il regime e, pur avendo in casa un padre che è l’esempio di mascolinità violenta, riesce a prendere le distanze. Ha una visione del mondo, un pensiero personale liberi dalle gabbie del regime e del periodo, a proposito di ruoli e apparenze.

Passiamo alla scrittura. Hai frequentato la Holden di Torino: ha aiutato?

È stata anzitutto stimolante per i miei compagni di corso, con cui mi vedevo su Skype – ho iniziato l’anno della pandemia, le lezioni erano a distanza –, sia per parlare di libri, di scrittura, di storie sia anche per chiacchierare e basta; il martedì giocavamo a Dungeons & dragons. E gli insegnanti sono incredibili, ci hanno fatto leggere romanzi fantastici, dato spunti di scrittura sorprendenti.

Beatrice, l’ultima domanda – la faccio sempre, questa. Immagina di avere settant’anni: è domenica mattina, che fai, con chi sei, dove sei?

Sono una bella vecchiettina con le braccia piene di tatuaggi, i capelli corti e bianchissimi e due Corgi; ne ho già uno, Dylan. In una casetta con un giardino o una veranda piena di piante, una birra scura in una mano, un libro nell’altra. Non so se ci sarà qualcuno con me, probabilmente un gruppo di amici.

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