Tim Burton è contento. Si vede. Da spettatori gli si vuol bene, e fa piacere. Non sto facendo psicologia d’accatto. Beetlejuice Beetlejuice (sottotitolo in calce 2024 D.C., rigorosamente inciso su immancabile lapide funeraria) trasuda allegria contagiosa, come e più dell’originale, il Beetlejuice del 1988.

Lo “spiritello porcello” creato da un Burton trentenne alla prova del sequel non solo non delude, ma rassicura i fans sul buonumore, esistenziale e creativo, di un surreale poeta del gotico macabro. Senza scadere nel pettegolezzo da tabloid femminile, è opinione comune che l’incontro con Monica Bellucci abbia illuminato parecchio la vita privata di Burton, e di certo la trionfale new entry di Bellucci nel cast di 36 anni fa, in veste di sposa cadavere ricucita come la Creatura di Frankenstein, è una gioia per gli occhi.

Come film di apertura di Venezia 81, questo recupero di uno spettro iconico, scorretto e sboccato è una prelibatezza. La svolta di mood dell’autore era già stata segnalata nei giorni torinesi della sua mostra record al Museo del cinema: addio tetraggine, svolazzava per la Mole un signore pieno di joie de vivre, in piena coerenza comunque con la sua innata sintonia con l’oltretomba.

Una bella iniezione di energia gli è arrivata comunque da Mercoledì, squisitissima serie Netflix che l’ha risollevato dalla strada senza uscita di Dumbo: «Il mio ultimo film», aveva dichiarato allora il regista. La Jenna Ortega protagonista della serie si è conquistata un posto d’onore nel nuovo film. È la figlia di Winona Ryder – che a diciassette anni interpretava la ragazzina dark Lydia Deetz – e la nipote della non meno carismatica Catherine O’Hara, da madre qui promossa a nonna.

E Beetlejuice non poteva che essere il Michael Keaton di allora, solo più purulento e verdastro perché i vermi, nel tempo, hanno proseguito instancabili la loro opera di corrosione. Venezia ha salutato con applausi a scena aperta questo luna park colorato di vivi e morti viventi, felice di ricongiungersi all’uomo di Burbank premiato qui nel 2007 con il Leone alla carriera. Al Festival lagunare aveva consegnato i due rivoluzionari capolavori stop-motion della sua vita, Nightmare before Christmas nel 1993 e La sposa cadavere nel 2004.

Abbandonarsi al gioco

Jenna Ortega in Beetlejuice Beetlejuice (Warner Bros.)

Non è da nostalgici ritrovare le tre generazioni delle Deetz nella cupa dimora teatro della prima avventura, di ritorno solo per celebrare i funerali del nonno, azzannato da uno squalo in un esilarante frammento in stop-motion. Lydia/Ryder ha messo a frutto le sue capacità paranormali ed è la star di un tv show prodotto dall’ impresario cialtrone Rory (Justin Theroux). Astrid/Ortega è in conflitto con mamma perché la considera una mistificatrice, tant’è che non riesce a comunicare con l’unico defunto caro alla ragazzina, il babbo scomparso in Amazzonia. E Winona è tuttora stalkerata dallo spiritello porcello della sua adolescenza, che si attrezzato da manager di un ufficio di zombie.

La vicenda si ingarbuglia quando in un sepolcrale deposito Oggetti Smarriti – che riproduce le simmetrie sghembe da espressionismo tedesco care al regista – un corto circuito rimette insieme i pezzi di Monica Bellucci. È l’ex signora Beetlejuice, una succhia-anime che trasforma le sue vittime (Danny De Vito tra di loro) in prugne secche, ostenta un mosaico di cicatrici e una furia vendicatrice scatenata.

È anche una ricercata speciale della Polizia dell’Aldilà, capitanata da Willem Dafoe. Il suo mezzo cervello scoperchiato non lo rende meno efficiente. È un bombardamento di citazioni: annoti che tra le centraliniste di Beetlejuice c’è la mamma imbalsamata di Psyco, che la Banana Boat demenziale del primo film torna cantata dai chierichetti al cimitero, che tra i ricordi di Lydia c’è la sua gravidanza a un Festival di Mario Bava (altro culto di Burton), che il regista non risparmia le sue solite stoccate a casa Disney… Poi a un certo punto ti stanchi di tenere la contabilità cinefila e ti abbandoni saggiamente al gioco. Al diavolo, vecchio Tim, facci sognare!

Un sequel vincente

Catherine O'Hara, Jenna Ortega, Winona Ryder e Justin Theroux (Warner Bros.)

Siamo alla vigilia di Halloween (quando, sennò?), Lydia ha accettato di malavoglia di impalmare il suo malintenzionato impresario e Astrid si illude di aver incontrato il boyfriend dei suoi sogni, soprattutto perché sta leggendo Delitto e castigo. Putroppo però il Principe azzurro ha sterminato i genitori ventitrè anni prima, anche se divide ancora la casa con due arzilli inquilini con un’accetta nel cranio, l’uno, e un frullino piantato in un occhio, l’altra.

L’intraprendente figliolo si dispone a tornare in vita spedendo in cambio Astrid sul danzerino treno verso l’aldilà. Solo Beetlejuice potrà evitare il misfatto, e Lydia si rassegnerà ad evocarlo dal polveroso plastico della cittadina che l’antica dimora di famiglia ancora custodisce in soffitta. Prezzo: un contratto di matrimonio. Un altro.

Luna park è la parola giusta: uno scatenato carnival sotto sostanze, metaforicamente, con le sale d’aspetto del mondo di sotto popolate di surfisti incappati negli squali, mezzo corpo e mezza tavola, i sandworms di Dune che irrompono nel racconto ma con più denti e più colori, il babbo defunto che fa il bigliettaio in stazione con i pirana del Rio Delle Amazzoni ancora occupati a sbocconcellagli i sembianti. La scena clou però, quella da standing ovation, è il matrimonio versione musical che vede Beetlejuice fare quello che il 99 per cento degli spettatori sognava da anni.

Gli influencer “cinque milioni di followers” invitati dal viscido Dody a scopo promozionale per magia invertono i cellulari sulla propria immagine, inorridiscono ed esplodono nei mille frammenti di spazzatura che sono.

Tim Burton ci vendica tutti sparando gli effetti speciali più esilaranti degli ultimi decenni, citando e autocitandosi a man bassa, rispolverando i suoi umanoidi di Mars Attacks!, celebrando il suo universo macabro come sgargiante festa mobile del mondo reale con i suoi vizi. È un moralista che usa la fantasia al posto dei pistolotti.

Lo è sempre stato, casomai non lo aveste notato. Il primo Beetlejuice non era tra i suoi capolavori. Questo è un rarissimo caso di sequel che si ritaglia un posto tra le pietre miliari.

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