Il mio primo incontro con Alain Delon non è stato, sorprendentemente, mediato dal cinema. Anche per questioni anagrafiche, sono nato nel 1990, quando la parabola artistica di Delon si era già consumata se non per due ultimi lampi che ho scoperto più tardi, Nouvelle vague di Jean-Luc Godard e Cento e una notte di Agnès Varda, ho visto per la prima volta il volto dell'attore francese sulla copertina di un disco destinato a segnare la mia adolescenza, The queen is dead degli Smiths. In quella copertina iconica campeggia infatti un fotogramma tratto da Il ribelle di Algeri dove Delon appare spogliato dalla sua straordinaria e proverbiale bellezza, quasi irriconoscibile, steso sul pavimento senza vita. Ma già qualche anno prima, con un pezzo dell'album La moda del lento, i Baustelle avevano instillato il nome dell'attore nella mia mente con parole che rimandavano ai chiaroscuri della sua vita tra la bramosia dell'assoluto («L'unica cosa che ho è la bellezza del mondo / La sola cosa che so è che vorrei conservarla / Per me») e il desiderio naturale di inseguirne il fascino («Ma sono diverso, sono sporco / Avevo torto marcio, tu piangevi / Io già recitavo, erano anni che studiavo Alain Delon»).

Solo dopo venne in maniera più consapevole il cinema: perché se è vero che già un mio professore alle scuola medie ci fece vedere Il gattopardo (e non solo, ricordo anche una visione straniante di La terra trema), fu solo anni dopo che il volto di Alain Delon si impresse nella mia mente, unendo per sempre l'uomo e i personaggi interpretati. Anche per questo con la sua scomparsa per me sono morti Frank Costello “faccia d'angelo” avvolto in uno stupendo doppiopetto chiaro, il metafisico e spettrale agente di cambio Piero dell'Eclissi di Antonioni e l'enigmatico e rassegnato Jean-Paul di La piscina, film in cui forse più di ogni altro viene messa in posa la bellezza di Delon.

Epica famigliare

E poi ci sono i grandi ruoli che hanno garantito a Delon di segnare la storia del cinema come in Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti dove interpreta il tragico protagonista Rocco. La storia della famiglia Parondi, emigrata a Milano dopo la morte del padre in cerca di una nuova stabilità, si tinge nei miei ricordi di un colore particolare, perché se è vero che ogni opera d'arte può avere un suo valore oggettivo, è anche vero che tante sono le variabili che invece segnano la nostra percezione di quell'opera. Ho visto per la prima volta Rocco e i suoi fratelli su una vecchia televisione, una sera d'estate, in completa solitudine nella casa dei miei nonni in Abruzzo, dove la noia di quei giorni venne completamente riscattata dal film di Visconti. Nella mia mente resta impressa l'epica scena in cui si intrecciano le immagini della vittoria sul ring di Rocco e l'uccisione della donna che ama assieme al fratello, e le visioni successive mi hanno fatto comprendere il miscuglio perfetto tra spirito moderno (il Nord come luogo mitico in cui poter emigrare e avere successo) e tragedia classica (la rete famigliare dei Parondi con il suo contrasto perpetuo tra emancipazione e pensieri ancestrali) vissuto da Rocco e gli immaginifici riferimenti letterari che ne muovono silenziosamente le gesta e i pensieri rendendolo un impossibile punto d'incontro tra Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann e gli interrogativi esistenziali di stampo russo.

Un simile stupore ammanta anche la mia visione del Gattopardo di Visconti, il regista che più di ogni altro aveva intuito la natura più profonda e oscura di Delon, come testimonia un'intervista del 1970 in cui racconta di aver scelto Delon per interpretare Marcel nell'adattamento della Recherche di Proust (film poi mai realizzato) e alla domanda se non fosse «troppo bello» risponde che lo è sicuramente ma anche che «nella sua bellezza c’è qualcosa di cattivo e furtivo». Nel Gattopardo, in cui il libro di Tomasi di Lampedusa assurge a uno stadio perfetto di rappresentazione visiva, Delon interpreta magnificamente Tancredi, nipote del principe di Salina ed elemento di rottura rispetto alla tradizione aristocratica, segno concreto della fine di un'epoca, che sceglierà di sposare non la cugina Concetta, perpetuando così l'illusione di un'intera classe sociale, ma Angelica, figlia di un ricchissimo, ma poco istruito, borghese, una stupenda Claudia Cardinale che questa domenica ha ricordato con parole commosse l'amico proprio pensando a questo film: «Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle. Per sempre tua, Angelica».

Il professore

E cosa dire, infine, di Daniele Dominici, l'affascinante professore interpretato da Delon in La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, un regista schivo e luminoso che ricorda l'agire silenzioso di un poeta come Sergio Corazzini? Per chi poi, come me, fa l'insegnante, diventa impossibile non cedere al fascino di Delon in questo film, un supplente in un liceo classico di Rimini (qui immersa in una sorta di “lato oscuro” fatto di malavita, gioco d'azzardo e relazioni tossiche) che all'inizio del film, con uno splendido cappotto color cammello, un dolcevita blu e una sigaretta senza filtro in bocca, spiega subito alla sua classe, agitata da una discussione politica, il valore assoluto della letteratura: «Io sono qui per spiegarvi perché un verso del Petrarca è bello e presumo di saperlo fare. Tutto il resto mi annoia. Per me neri o rossi siete tutti uguali, i neri solo più cretini». Il film, uscito nel 1972, racconta poi dell'amour fou («la bellezza convulsiva sarà erotico-velata, magico-circostanziale o non sarà» ha scritto Breton) tra Dominici e la studentessa Vanina Abati a cui regalerà una copia di Vanina Vanini di Stendhal, piccola storia in cui la protagonista rimane affascinata da un personaggio ribelle portatore di uno sguardo nuovo sul mondo, prima di un turbine di violenza e distruzione in cui la letteratura rimane ultimo bastione della resistenza umana davanti a un mondo che si disfa.

Alain Delon ha avuto anche un figlio, mai riconosciuto in una delle vicende più tristi e imbarazzanti della sua vita, con Christa Paeffgen, in arte Nico, una delle più grandi innovatrici della musica degli anni Settanta (ma anche tra le attrici di La dolce vita di Fellini). Nel suo brano Ari's Song, dedicato alla nascita del figlio, che sarà poi cresciuto dalla madre di Delon, in pochi versi attraversati da una lunga e maestosa nota di organo, Nico omaggia il suo bambino: «Salpa, salpa, salpa mio piccolo bambino / Lascia che il vento riempia il tuo cuore di luce e di gioia». Si farebbe un torto alla memoria di Nico e alle sofferenze del figlio a immaginare queste parole in rapporto a Delon, ma chissà se nel momento finale della propria esistenza, i cui ultimi tempi erano stati segnati da una mesta regressione all'infanzia, nell'attimo in cui gli occhi si sono chiusi per l'ultima volta come nella copertina del disco degli Smiths, anche Delon, navigando verso il sogno eterno, abbia di nuovo riempito il suo «cuore di luce e di gioia». Non lo possiamo sapere, ma nessuna ci vieta di immaginarlo.
 

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