Prima che la cultura italiana prosciugasse ogni sua forma di originalità in una forma di tragica beatificazione, c’è stato un momento in cui l’orma lasciata da Pier Paolo Pasolini si traduceva in una percezione inedita del mondo e dei suoi fatti. E insieme a Pasolini la quotidianità era invasa da voci che sapevano leggere la contemporaneità con lucidità e chiarezza offrendo al tempo stesso la possibilità di un mondo nuovo.

Era un panorama in un cui Pasolini, Moravia, Morante e con loro artisti e poeti, pittori e intellettuali dialogavano e portavano alla luce un’idea di mondo dolce e pericolosa insieme, seducente e rischiosa. Era un gioco serio e complesso in cui il corpo giovane del paese riluceva come quello di un adolescente in corsa. Era un’avventura oggi difficile da cogliere e da rivelare perché gli anni hanno coperto di materia dura un corpo che era agilissimo e reattivo.

La durezza della memoria che tutto stabilizza e certifica dice molto di cosa è stato un tempo passato, ma dice pochissimo di cosa fu quel soffio e del valore di quell’alito amoroso sulla vita di chi lesse in quel momento quei libri, di chi visse quei giorni tra mostre e sale cinematografiche. Solitamente è necessario un lungo lavoro critico per poter arrivare a riconoscere quello che fu l’impatto della cultura nel tempo del suo farsi, ed è un lavoro che molti critici negli anni hanno portato valorosamente a termine con testi e opere in generale colte e puntuali.

Il primo film

Tra i più significativi va sicuramente citato il lavoro raffinato e accurato di Angela Borghesi, L’anno della Storia (Quodlibet) che recupera il vivace e contraddittorio dibattito che segnò l’anno de La storia di Morante. Ma esiste anche una possibilità altra che è quella di cogliere quel tempo attraverso l’opera di chi ne fu allievo e che seppe traghettare quel discorso innestandolo in un tempo futuro inedito spingendolo così ancora più oltre.

È sicuramente il caso di Bernardo Bertolucci che come più volte ebbe occasione di dire lui stesso, l’incontro con quel mondo, che fu Pasolini, Moravia, Morante, Siciliano e molti altri, fu una vera università. Un incontro in parte favorito dal padre Attilio Bertolucci che produsse con Pasolini quello che fu l’esordio di Bernardo Bertolucci, La comare secca (1962) a cui fece seguito quello che può essere considerato a tutti gli effetti il primo vero e totale film di Bertolucci, Prima della rivoluzione, di cui quest’anno ricorrono i sessant’anni dall’uscita in sala.

Se La comare secca, che impressionò critica e pubblico, può essere considerato un esercizio di stile su una traccia pasoliniana (il soggetto era di Pier Paolo Pasolini che indicò poi Bertolucci alla produzione come regista), Prima della rivoluzione rivela per la prima volta la voce dell’incanto frenetico di Bertolucci. Un impasto poetico visivo, politico e utopico che apparterrà per sempre alla sua cinematografia e ai suoi protagonisti, veri e propri dreamers cinéphiles in corsa verso un sogno disperatamente in crisi: un sogno reale quanto cinematografico.

Prima della rivoluzione è stato al centro di due giornate di studi a Parma organizzate dalla Fondazione Bertolucci che ha anche allestito una bellissima mostra fotografica. La mostra, curata da Marcello Garofalo negli spazi di palazzo Pigorini, presentava fotografie di scena e backstage (alcune inedite) oltre che appunti autografi di Bertolucci e la sceneggiatura originale del film che, sempre per la cura di Marcello Garofalo, è stata pubblicata dalla nave di Teseo all’interno del volume Prima della rivoluzione oggi che accoglie anche un ricco apparato bibliografico con le recensioni e i commenti dell’epoca.

Perdere l’orientamento

Presentato alla mostra del cinema di Cannes nel maggio del 1964, Prima della rivoluzione non fu subito accolto benevolmente dalla critica e tanto meno dal pubblico, soprattutto italiano, ancora abituato a un cinema popolare rappresentato dalla commedia all’italiana e da un cinema autoriale legato ancora ai canoni del neorealismo.

Due movimenti che il cinema di Bertolucci avrebbe contribuito più che a contestare a far saltare letteralmente per aria. Prima della rivoluzione infatti fece perdere totalmente l’orientamento alla critica (soprattutto quella ideologizzata, quindi quasi tutta e quasi tutta di sinistra) che solo più tardi seppe coglierne l’estrema modernità e la capacità assoluta, di coniugare tensione politica a tensione erotica, tipica di Bertolucci.

Un intreccio che si poggiava fortemente su una fiducia inesauribile (fino alla fine) per il cinema e la sua capacità di produrre un immaginario così forte e potente da poter scivolare e circolare fino nelle strade. Un’idea di cinema che nasceva dall’utopia con la pretesa poetica di divenire – tramite il mezzo cinematografico – un pezzo possibile di realtà, un modo non per guardare il mondo, ma marxianamente per cambiarlo, anche radicalmente.

Prima della rivoluzione appare così più contemporaneo dei contemporanei perché non canta e non decanta, ma accoglie una fatica e una nostalgia oggi così diffuse e ancora così difficili da nominare, e lo fa stando in un tempo che a distanza di sessanta anni appare erroneamente così facile alla felicità e che fu invece, proprio per la grande disponibilità di sogni nelle strade, traumatico e doloroso.

Anticipare il 1968

La pellicola di Bernardo Bertolucci anticipa così il 1968 cogliendone l’utopia e la crisi, ma al tempo stesso mantenendo sempre distanti le due cose. L’utopia non è infatti parte della crisi (come spesso tocca di dover leggere nella dolente memorialistica di chi si pone con il vanto assurdo del io c’ero), ma resta il motore di una possibilità diversa.

Nonostante anche le scelte del protagonista che alla dolenza oppone una rabbia tesa che sarà poi la medesima – ancor più feroce – dell’Alessandro di Lou Castel, protagonista dell’esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca dell’anno dopo, il 1965. Ma è un altro film che sembra dialogare al meglio con Prima della rivoluzione ed è sempre un esordio, segno di una vivacità irreprimibile di quegli anni, gli ultimi forse in cui poter credere ancora al cinema, come ebbe a dire anni dopo Giuseppe Bertolucci, fratello di Bernardo, e si tratta di Diamanti della notte di Jan Němec.

Il film è una corsa disperata di due giovani sfuggiti miracolosamente da un treno diretto in un campo di concentramento. Liberatisi dei cappotti con le sigle KL (Konzentrationslager) i due adolescenti vagano nella campagna polacca in cerca di salvezza sognando un ritorno a casa probabilmente impossibile. Ricordano e sognano l’infanzia che prende così la forma di un desiderio futuro. Ed è in questa forma di gioiosa nostalgia bambinesca che si palesa un’idea di cinema affine a Bertolucci, un incanto che lotta contro il disincanto, una leggerezza che si oppone alla retorica. Un desiderio radicale di cambiamento che non bada alla realtà perché è la realtà che va mutata nelle sue leggi più odiosamente irriducibili, e da qui il vezzo e lo stile, l’eros e il gioco, ma anche l’assenza di risposte, la caducità della vita e la perdita facilissima di riferimenti.

Un gioco pericoloso quanto vitale. L’assenza di questa improvvisazione è forse il dato oggi più detestabile di una cultura che ha abbandonato il campo lasciandolo in mano a una forma di coerente perbenismo e di razionale svolgimento che poco dice del reale preferendo aderire invece che mettere in discussione.

Prima della rivoluzione ci ricorda, e lo fa con i visi di Adriana Asti e di Francesco Barili, amico e quasi sosia di Bertolucci, che esiste un tempo che ha preceduto la rivoluzione come fatto e conseguenza, ovvero come limite e come sconfitta. Un tempo di esplorazione curiosa e porosa in cui cogliere ecletticamente era non solo consigliato, ma necessario per dare forma a un contenitore capace di offrire la complessità di un immaginario che poi in parte si sarebbe perso. Un gioco d’azzardo rischioso e anche perdente, ma che pose Bernardo Bertolucci fianco a fianco agli spettatori dei suoi film, stupiti insieme, felici insieme. 

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