- Carla Lonzi, negli anni Settanta, descrisse il maschilismo senza farlo coincidere con la maschilità. Individuava nell’uomo giovane un possibile alleato della donna nella lotta al patriarcato: intendeva sottrarlo al ruolo di candidato al dominio, sviluppare la sua coscienza di genere, insegnargli qualcosa.
- Questa cosa me l’ha insegnata Biancamaria Frabotta, la mia maestra alla Sapienza di Roma, che nel femminismo di quegli anni aveva militato. Come le docenti universitarie del medioevo italiano o le filosofe dell’antico Mediterraneo, Frabotta abitava un ruolo pensato per i maschi meglio di loro.
- Il rapporto tra maestra e discente è poco codificato nell’immaginario maschile, ma offre un paradigma liberatorio radicato nell’alleanza immaginata da Lonzi. È una relazione che si fonda sulla differenza, e il magistero di Frabotta lo mostra negli allievi così diversi che ha prodotto. Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
Nelle entusiasmanti pagine anni Settanta di Sputiamo su Hegel, capolavoro delle meditazioni di lotta in seno al leggendario collettivo di Rivolta femminile, Carla Lonzi descrive il patriarcato, il maschilismo, senza farli coincidere con la maschilità. Individua nell’uomo giovane, nel ragazzo, un ambiguo ma potenzialmente cruciale alleato della donna nella battaglia contro le ingiustizie materiali e sovrastrutturali perpetrate in occidente dal paradigma economico, bio-politico e simbolico del potere trasmesso per via patrilineare.
Lonzi auspica di sottrarre sistematicamente tale maschio in erba al ruolo di candidato al dominio. Propone di coltivarne il risentimento, sociale e psicologico, per raffinarlo in coscienza, senza lasciare che si risolva in una catartica sostituzione del padre e del padrone: intende guidare i giovani maschi, cooptarli nella lotta con gli strumenti umani della pedagogia. Intende, insomma, insegnargli qualcosa.
Questa cosa me l’ha insegnata Biancamaria Frabotta, poeta e studiosa, femminista e maestra. Dopo un’incandescente, caleidoscopica vita di militanza e contemplazione tra scrittura e insegnamento, Biancamaria Frabotta è morta a Roma il 2 maggio scorso, lasciando un po’ orfano chiunque ami la poesia e chiunque si senta femminista in quest’Italia che così poco celebra le sue letterate, le sue maestre.
Maestre inimitabili
Non è codificato come quello tra Dante e Virgilio, o quello tra Socrate e Platone, il rapporto tra una maestra e un discente. È una relazione che non può contare su certi automatismi della mimesi, e che deve invece resistere a quelli innescati dalle stanche ma immarcescibili mitologie di genere – il cosiddetto istinto materno, la supposta erotica dell’insegnamento, i due poli grotteschi dell’amorevole maestrina querula, con la famigerata penna rossa, e della castrante virago.
Un simile lavoro di resistenza tende a cadere, come quasi sempre nelle spinose geometrie di genere, sulle spalle della donna, dell’insegnante, che per essere ascoltata o letta fruttuosamente dai suoi allievi e dai suoi pari è chiamata a librarsi sulle aspettative, abitare un ruolo progettato per altri, proiettarsi autorevole proprio mentre scardina gli stereotipi dell’autorità.
È ben più facile fare l’allievo che non la maestra. E anche fare il maestro di un’allieva non è così complicato, visto che tanto a lungo, per le donne, imparare ha significato immaginarsi più simili agli uomini – o, per lo meno, adeguarsi a spazi e tradizioni stabilite dagli uomini, per gli uomini.
Pare che la prima laureata della storia, Bettisia Gozzadini, nella Bologna del XIII secolo, si travestisse da uomo per frequentare le aule di giurisprudenza. E pare che, venuto il suo turno di insegnare all’università, pronunciasse le sue lezioni di diritto da dietro uno schermo, inaccessibile agli sguardi degli studenti tutti maschi. Lo stesso faceva Novella d’Andrea, che un secolo dopo fu la seconda donna a insegnare in ateneo.
Biancamaria Frabotta, che negli anni Settanta ha scritto un poemetto incantevole e inquietante su un’altra studentessa medievale che non divenne mai maestra, Eloisa, e sul suo mentore Abelardo, la ricordo come la più carismatica e puntuale delle oratrici, sobriamente teatrale e autentica mentre leggeva da appunti scritti a mano per ammaestrarci senza mai abiurare la sua luminosa coscienza femminile.
Ricordo anche però che la sua voce, nelle aule titaniche della Sapienza, era un filo sottile e teso, che veniva come da dietro un velo, imponendoci un silenzio di grande attenzione per non perdere neanche una parola. Un tono debole e perciò fortissimo, di assoluta credibilità, che con la mia voce da maschio, ora che insegno la letteratura contemporanea che ho imparato da lei, non posso riprodurre né imitare.
Genealogia di apprendistati
È forse il fatto che interrompe necessariamente il meccanismo di immedesimazione e ripetizione della docenza maschile, una specie di filiazione omosociale e omologante, a far sì che la relazione tra una maestra e un discente sia così poco codificata. Scarseggiano, nell’immaginario patriarcale, guide e modelli femminili non-mamme, non-Lady-Macbeth, non-donna-angelicata. Ma credo sia proprio quest’apparente svantaggio (il non poter esigere semplicemente di essere imitata, riprodotta) ad aver generato, in quello scarso numero di casi, una felicissima genealogia di apprendistati in cui è la differenza stessa a suggellare l’alleanza miracolosa tra chi mostra la strada e chi la imbocca, tra chi indovina il potenziale e chi lo esprime.
Sinesio, il vescovo cristiano della Cirene del V secolo, aveva imparato tutto da una pagana, Ipazia, che venerava intellettualmente e a cui scriveva «Se tu provi qualche interesse per le mie cose, bene; in caso contrario, non importano neanche a me».
La leggenda vuole che Temistoclea, filosofa e sacerdotessa a Delfi, abbia trasmesso a Pitagora l’ispirazione apollinea della sua matematica, e la prodigiosa matematica Emmy Noether, due millenni e mezzo più tardi, ispirava i suoi allievi a occuparsi di problemi anche lontani dai suoi interessi di algebra astratta. Fuggita alle persecuzioni naziste, migrata negli Stati Uniti dove ha vissuto gli ultimi anni della sua carriera, si era circondata di quelli che a Bryn Mawr e Princeton erano noti come i “Noether boys”: giovani maschi che, invece di plasmare a sua somiglianza, voleva invitare a collaborare, smantellando la struttura della lezione frontale e pianificata per aprire tutti i suoi corsi alla dimensione orizzontale del seminario e del dibattito.
A differenza della mia maestra, Noether non parlava piano ma a velocità supersonica: al ritmo dei suoi fulminei pensieri, in una mitraglia verbale che costringeva colleghi e allievi a concentrarsi completamente per provare a stare al passo. Il modello di alleanza femminista ipotizzato da Carla Lonzi si sostanzia di questo, mi sembra, da allievo quale sono di una maestra: di una resistenza alle convenzioni, rifondate sull’attenzione suscitata da una voce differente, e, soprattutto, di una differenza irriducibile, che si diffrange poi in un’accogliente anomalia liberatoria; in un superamento dell’imperativo patriarcale alla discendenza, alla versione meno creativa del concetto di eredità.
La scuola di Frabotta
Biancamaria Frabotta ha fulgide e diversissime eredi a mostrare la fecondità del suo magistero: scrittrici e poete come Melania Mazzucco, Maria Grazia Calandrone, Laura Pugno e Giovanna Amato, studiose e professoresse come Elisa Donzelli, Monica Venturini, Barbara Castaldo e Stefania Benini, giornaliste come Vania De Luca – ma le categorie sfumano, d’altronde, l’una nell’altra, giacché Frabotta era anche maestra nel mescolare professioni, talenti e generi letterari.
Ha pure, però, molti allievi: una galleria di “Frabotta boys” che testimoniano l’utopia lonziana del suo femminismo inclusivo e pedagogico. Tra i più giovani c’è Giorgio Ghiotti, l’ultimo autore che abbia candidato al premio Strega, a cui dobbiamo la ri-edizione per FVE dell’unico romanzo di Frabotta, Velocità di fuga, uscito originariamente prima che lui nascesse. Tra i più risalenti Marco Caporali, poeta così diverso dall’entusiasta e gregario Ghiotti, amichevolmente solitario e persino schivo.
Ancora diversi sono Paolo Di Paolo, romanziere di fama, e Carmelo Princiotta, forse il più fine interprete dell’opera di Frabotta, che si dedica da anni a un campo di studi che lei aveva fondato: la storia del presente e del recentissimo passato della poesia italiana. Anche Davide Toffoli, appassionato insegnante che ho di recente ascoltato nel podcast La città dei vivi di Nicola Lagioia, ha studiato con Biancamaria Frabotta, e anche Michele Fianco, autore sperimentale e spesso criptico, e Mario De Santis, autore lirico e sempre chiaro.
Il timido fotografo Andrea Annessi Mecci e il giornalista e autore televisivo Giommaria Monti hanno entrambi discusso una tesi su Pasolini con Biancamaria Frabotta, e Biancamaria Frabotta è stata la relatrice di studiosi e saggisti come Paolo Febbraro e Massimiliano Tortora, che su riviste e giornali si occupano di cose lontane da quelle di cui mi occupo io.
Credo che una cosa sola accomuni davvero noialtri incompatibili ex-studenti della scuola di Biancamaria Frabotta: a nessuno di noi, all’università, è stato assegnato un destino. Non abbiamo conosciuto il rassicurante ma ricattatorio comando a replicare un maestro, a continuarlo o a scontrarci, come edipi, con lui. Ad Amleto, la nostra maestra preferiva Aiace, e ci ha cooptati in una lotta contingente e senza tempo armandoci della responsabilità di decidere chi fossimo, senza la scorciatoia di poter imitare la sua voce di professoressa e di poeta, di storica e di attivista. Quale tirocinio migliore si può immaginare, per un allievo?
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