- La legge cinese prevede che chi giunga in Cina dall’estero ha l’obbligo restare a spese proprie in una camera d’albergo per tre settimane. Questa ed altre regole ferree fanno sì che la Biennale di Chengdu sarà vista solo da un pubblico cinese.
- Con Trump prima, con Biden adesso, i rapporti Usa-Cina sono sempre più tesi. Questo inciderà negativamente sugli scambi culturali.
- A Chengdu ci sono parecchi artisti britannici, non c’è un solo italiano. C’è però un padiglione dedicato alle accademie di belle arti di tutto il mondo e per l’Italia sono stati scelti i lavori di nove studenti provenienti dall’Accademia di Brera di Milano, dall’Albertina di Torino e da quella di Roma.
Quella che si inaugurerà sabato prossimo al Chengdu museum of contemporary art e al Chengdu Tianfu art museum si preannuncia come la più grande Biennale d’arte mai organizzata in Cina: 272 artisti, di cui circa 80 provenienti da 35 paesi di tutto il mondo, uno spazio espositivo di oltre sessantamila metri quadrati e diciassette mostre collaterali dislocate in vari luoghi della città.
Intitolata Super fusion, questa grande rassegna affronta temi legati alla pluralità, alla diversificazione, alla coesistenza di civiltà e valori diversi, al rapporto tra arte e città in un mondo in rapida trasformazione, alla relazione tra uomo e macchina, ai cambiamenti climatici.
«Viviamo in un contesto segnato dalla pandemia e dai problemi creati dagli effetti dell’inquinamento. L’arte non può fare a meno di riflettere su questi temi» mi dice Lu Peng, direttore del comitato scientifico di questa Biennale curata da Fan Di’an, attuale direttore della China central academy of fine arts di Pechino, ma anche presidente dell’Associazione degli artisti cinesi e vicedirettore del Comitato per l’educazione artistica presso il ministero della Pubblica Istruzione.
Anche Lu Peng ha rivestito e riveste numerosi incarichi istituzionali, ma in occidente è noto soprattutto per avere pubblicato nel 2010 in diverse lingue, tra cui l’italiano, A history of art in 20Th century China, un volume di oltre mille e settecento pagine nel quale per la prima volta si faceva il punto sulla storia dell’arte cinese del Novecento.
Attualmente sta invece lavorando a una storia politica della Cina dal 1898 ai nostri giorni. «In questo nuovo libro il mio intento è dare una visione della storia della Cina degli ultimi due secoli da una prospettiva diversa da quella di studiosi come John K. Fairbank e Jonathan D. Spence» precisa.
Standard globali
Fan Di’an spiega così il progetto di questa Biennale: «Abbiamo suddiviso le opere in otto sezioni i cui titoli contengono tutti la parola comunità, perché fosse chiaro che a interessarci è il sentire comune nella pratica creativa dell’arte e della simbiosi tra creature e vite appartenenti a mondi diversi. Questa è la caratteristica principale della nostra biennale, caratteristica che si farà avvertire anche nel modo di esporre, nella continuità tra spazi esterni e interni».
«A questa Biennale partecipano molti artisti occidentali», aggiunge Lu Peng, «molti di loro sono noti: Anish Kapoor, Tony Cragg, Katharina Grosse, Carsten Höller, Yoan Capote, Daniel Buren, Leandro Erlich, Fito Segrer, David Rokeby, Olafur Eliasson. Questo dimostra che gli standard dei curatori cinesi oggi sono globali.
I temi scelti sono universali, la ricchezza di concetti e linguaggi artistici, così come i panel a cui parteciperanno i direttori dei maggiori musei di arte contemporanea del mondo, fanno di questa Biennale un evento di portata internazionale».
Ma al di là della lista dei partecipanti e del comunicato ufficiale che spiega le ragioni della mostra, che coinvolge ben diciotto curatori scelti tra i più importanti critici cinesi, tutti legati a istituzioni pubbliche, gli organizzatori tengono blindate le immagini degli allestimenti. Che si miri alla sorpresa è normale, accade con tutte le grandi mostre in ogni parte del mondo.
Essendo riuscito ad avere le schede con le riproduzioni delle opere degli artisti partecipanti, mi sento di affermare che questa Biennale, seppure la sua portata non sia comparabile a quella di Venezia, si preannuncia particolarmente vivace e articolata. Considerate però le norme sulla quarantena vigenti in Cina, sarà assai difficile che il suo pubblico possa essere internazionale.
Le regole Covid
La legge cinese prevede infatti che chiunque giunga in Cina dall’estero – si tratti di cinesi o stranieri poco importa – ha l’obbligo restare a spese proprie in una camera d’albergo per tre settimane (Shanghai e poche altre città ne prevedono solo due).
Le regole sono ferree: l’albergo lo sceglie lo stato ed è a carico del cliente come lo è anche il cibo, rigorosamente cinese; niente caffè e niente alcool perché pensano che possano incidere sui risultati dei test; tre tamponi la settimana (anali in alcune città); febbre misurata e comunicata due o tre volte al giorno; la finestra della camera non può essere aperta del tutto; i corridoi sono sanificati più volte al giorno.
E ancora: i nuclei familiari con figli di età superiore ai sedici anni vengono ospitati in stanze separate. Superata questa prima fase di controlli è prevista una ulteriore settimana di osservazione, il che significa che gli stranieri dovranno trovarsi un altro albergo. Se poi si considera che i cinesi affermano che il virus è stato importato dall’estero, sugli stranieri c’è una maggiore attenzione.
La pandemia ha creato problemi anche agli artisti cinesi. Liu Jianhua, che per scelta del curatore sarà presente a Chengdu con Square, la stessa installazione che ha presentato alla Biennale di Venezia nel 2017, mi ha scritto che essendo appena rientrato a Shanghai da New York non potrà andare a installare personalmente la sua opera perché deve rispettare i tempi della quarantena.
Nelle città più grandi si stanno costruendo inoltre alberghi Covid con il personale umano sostituito da robot, in modo da ridurre i contatti. Che in questo contesto la Biennale di Chengdu possa contare su visitatori stranieri appare improbabile. Ma la vita deve andare avanti e se la mostra s’ha da fare, devono essersi detti in Cina, che sia una super mostra.
I rapporti con gli Stati Uniti
Chiedo a Lu Peng che cosa renda questa Biennale diversa dalle numerose altre che hanno luogo in diverse parti del mondo (a dicembre se ne inaugurerà una anche a Diriyah in Arabia Saudita, non affidata però a curatori sauditi). «Per quanto con la globalizzazione ci troviamo tutti a dover affrontare problemi comuni» risponde, «prevalgono ancora le peculiarità culturali.
Così come ogni individuo ha un suo dna diverso da quello di chiunque altro, ogni paese, ogni popolo ha le sue specifiche qualità formali». Afferma la diversità dalle altre Biennali anche Liu Jianhua. «Quella di Chengdu è sicuramente molto diversa dalle altre alle quali ho partecipato. Alla Biennale di Venezia ho percepito un’attenzione a livello mondiale.
La Biennale di Chengdu è abbastanza giovane, ancora in via di sviluppo, è presto per poterne dare un giudizio assoluto da una prospettiva unica, ma è anche vero che tanto la Biennale di Chengdu quanto le altre biennali stanno sviluppando le loro connotazioni con caratteristiche regionali e temporali diverse».
Tra i problemi sul piatto, dico a Lu Peng, ci sono i rapporti tra le nazioni. Negli ultimi decenni si era registrata una certa distensione tra Cina e Stati Uniti. Questa distensione ha favorito l’apertura di gallerie americane ed europee in Cina, ma ha anche fatto sì che le più importanti gallerie americane ed europee rappresentassero artisti cinesi, favorendo una crescita esponenziale delle loro quotazioni.
Con Trump prima, ma anche con Biden adesso, i rapporti Usa-Cina sono sempre più tesi. Gli chiedo se questo inciderà negativamente sugli scambi culturali. «Sicuramente sì. L’arte è sempre stata influenzata dalla politica e dalla geopolitica» risponde. «Negli Stati Uniti ora c’è un forte interesse per l’arte degli afroamericani, si guarda molto all’Africa. Questo è dovuto all’attenzione per il politically correct. La politica ha ovviamente un impatto sulle dinamiche che accompagnano il lavoro degli artisti e la promozione del loro lavoro, ciò è tanto vero per la Cina quanto lo è per gli Stati Uniti».
I centri propulsori dell’arte in occidente sono New York, Londra e Berlino. In Cina sono Pechino e Shanghai. Che ruolo può avere rispetto a Pechino e Shanghai l’arte prodotta in una città della Cina centrale? «Chengdu è una città storicamente importante nel mondo dell’arte contemporanea» risponde.
«Direi che Chengdu è l’humus da cui nascono le novità, mentre Pechino e Shanghai sono i luoghi in cui si sviluppa il mercato». Certo, gli artisti sono tutto in una mostra così ambiziosa.
A Chengdu parecchi sono britannici, non c’è un solo italiano, faccio notare. E Lu Peng: «I curatori hanno scelto gli artisti tenendo conto di come hanno affrontato i temi della mostra e non in funzione della provenienza. C’è però un padiglione dedicato alle accademie di belle arti di tutto il mondo e per l’Italia sono stati scelti i lavori di nove studenti provenienti dall’Accademia di Brera di Milano, dall’Albertina di Torino e da quella di Roma».
Tornando ai temi della Biennale: a Chengdu si affronta il tema del clima e della sostenibilità. L’occidente accusa la Cina di non fare abbastanza per contrastare l’emissione di gas nocivi.
Quali indicazioni vengono fuori in questo senso dalla vostra Biennale? «Le questioni ambientali», risponde, «portano ovviamente alla necessità di una cooperazione tra paesi. In un mondo caotico è normale che tutti si accusino reciprocamente. In questa Biennale abbiamo creato una sezione specifica che si chiama “Coesistenza ecologica”, ma su questioni importanti come queste affrontate a Chengdu gli artisti possono soltanto porre domande».
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