«Il pene sul carro tirato da giraffe, l’opera di Raphaela Vogler, per me è l’emblema di questa Biennale. È un apparato genitale maschile funestato da condilomi, papule, tumori ai testicoli, alla prostata, sul glande. Viene trascinato come una preda di guerra, un ludibrio carnevalesco. La didascalia, scritta dai curatori della mostra, parla di “umorismo” dell’artista tedesca che ne è l’autrice. Ora, immagina se al posto del pene ci fosse una vagina, con cancri e piaghe. Altro che “umorismo”! Si parlerebbe di sofferenza, con rispetto e sussiego. Ma la voga culturale è questa: il femminile è dolore e dignità, il maschile è cattiveria e ridicolaggine; perfino quando sta male».

«Ti scandalizzi?»

«Figurati. È solo un segno dei tempi. Passerà. Ma questa Biennale è bella, esuberante, colorata. Cecilia Alemani ha messo insieme tante opere splendide. È una mostra al livello di quella di Massimiliano Gioni del 2013. Secondo me, le migliori di questi decenni».

«Quindi, tutto sommato, bene».

«Ma sì. Solo che Alemani mi sembra insincera. Faceva prima a dire che la sua Biennale è rivendicativa; anzi, vendicativa. Lo si può capire: è giusto che gli artisti maschi sentano che cosa si prova a essere ridotti al dieci per cento del totale, come succede di solito alle donne nell’arte, dove la selezione è in mano a una minoranza di potenti. Nell’editoria le cose non stanno così; un libro costa poco, e chiunque, comprandolo, esercita una specie di diritto di voto, perché contribuisce a decidere le sorti di autori e autrici».

«Ma il tema della mostra non è questo!».

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«Lo è di fatto. La presenza di The Parents’ Room di Diego Marcon dimostra che i maschi sono accettati purché facciano ammenda; in questo caso, ripudiando femminicidi e sterminatori di famiglie. Il breve video di Marcon è una delle punte di questa Biennale: è la confessione cantata, elegiaca, di un uomo che ha fatto fuori moglie e figli; a suo modo ricorda Him di Maurizio Cattelan, il fantoccio di Hitler contrito in ginocchio: soddisfa il nostro bisogno che i cattivi si mostrino consapevoli del male che hanno fatto e chiedano perdono. Uomini, ammettete di essere tutti potenzialmente patriarchi abietti, e forse potremo assolvervi! Assumetevi le colpe dei peggiori fra voi, e anche quelle dei padri e dei nonni. Altrimenti, vi meritate il bando. Come gli atleti russi esclusi dai tornei… O come il padiglione russo sbarrato, con la guardia armata all’ingresso, la più impressionante performance involontaria di questa Biennale».

«Stai agitando degli spauracchi».

«Può darsi. Ma attenzione, a puntare troppo sul riconoscimento in quanto appartenenti a un’etnia, a un genere, eccetera: perché la contropartita sarà che tutto ciò che direte e farete verrà considerato non in quanto tale, né per le sue eventuali potenzialità universali, ma come un puro sintomo dell’appartenenza a quell’etnia, a quel genere. E se il tuo intento è risarcire le artiste del passato e del presente, e non lo dici a voce alta ma ti nascondi dietro un altro tema, crei strani cortocircuiti. Un esempio: una delle “capsule” (cioè le mostre retrospettive di questa Biennale) ripropone opere di arte cinetica e programmata; fra le tante persone che la praticarono, sceglie solo donne. Be’, a me pare che quell’arte avesse uno slancio trascendente, per andare al di là di ciò che siamo: forme visive astrattissime, matematiche, macchiniche, superano l’umano; a maggior ragione, superano la sessuazione. Ma se da quel movimento artistico trascegli solo donne, ecco che fai cadere l’accento sulla sorgente femminile di quelle opere, come se fossero un frutto della condizione sessuata di chi le ha fatte: proprio il contrario di ciò che quelle opere sognavano! Il titolo stesso della Biennale, “Il latte dei sogni”, rinforza questo nesso: l’arte viene considerata una secrezione, è direttamente legata alle condizioni creaturali di chi la esprime. Dunque non è possibile svincolarsi dall’essere donne o uomini? Eppure, negli intenti di Alemani, l’immaginazione è un modo per “cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”. La vedi, la contraddizione?».

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«Anche a me questa Biennale è piaciuta, ma per motivi opposti ai tuoi, e cioè proprio perché mette in evidenza la condizione di chi ha prodotto queste opere, e anche la condizione di chi le guarda, cioè noi. Alla fine, queste fantasticherie di corpi che diventano alberi, bestie, minerali, ibridazioni, metamorfosi, chimere zooantropiche, biomeccaniche… su di me hanno provocato un effetto di rimbalzo. Mi hanno fatto sentire una malinconia acuta per ciò che io sono».

«Perché?».

«Tutte queste artiste sognano un’umanità diversa dalla nostra. Quanto vola lontano la gittata dei loro desideri! Come salta al di là di ciò che siamo! E quanto è manchevole, al confronto, la nostra condizione reale. Al termine di questa fantasmagoria stupenda, uscendo dalla Biennale, ci si sente risucchiare ancora di più nella nostra solita condizione limitata, antropomorfa, mortale, individuale…».

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