È una storia italiana piena di misteri, alimentati dalla propaganda e da fonti che non sono mai state chiarite. Il giornalista Paolo Morando ha ricostruito la biografia di uno degli uomini più inquietanti del nostro passato
- Se scrivere una biografia è dare un ordine, e magari trovare un senso, all'accadere delle cose dentro una vita, Paolo Morando, col suo libro, ci è riuscito alla grande. Però, trattandosi di Cefis, la sfida si alza.
Cefis non è stato solo uno degli uomini più potenti, più temuti, più discussi, della seconda metà del Novecento italiano. Cefis è stato, anzi, continua a essere, nel nostro paese, una leggenda inquietante.
È la continua pianificazione di giochi di guerra calati in un conflitto sommerso. In palio ha il potere. Così Cefis cerca di sottomettere la politica. Piegare le istituzioni. Indurre alla resa chiunque pensi di resistere alle sue scalate.
Se scrivere una biografia è dare un ordine, e magari trovare un senso, all’accadere delle cose dentro una vita, Paolo Morando, col suo libro, ci è riuscito alla grande. Con uno scrupolo documentario e un rigore d’esattezza esemplari. Però, trattandosi di Eugenio Cefis, la faccenda si complica. La sfida si alza. E di parecchio.
Poiché Cefis non è stato solo uno degli uomini più potenti, più temuti, più discussi, della seconda metà del Novecento italiano. Cefis è stato, anzi, continua a essere, nel nostro paese, una leggenda inquietante.
Inchieste giudiziarie e investigazioni giornalistiche, libri, libelli e saggi, voci e illazioni. Un’immensa e composita costruzione narrativa, in corso da tempo e mai interrotta, ne ha filato e tessuto la leggenda minacciosa. Morando ne espone l’accurato repertorio. Tanto per ricordare, qui ne riportiamo alcuni esempi. Cominciando dal bestseller del 1974 Razza padrona diventato, dirà poi Cefis, il «Manuale degli imprenditori privati spinti alla riscossa contro l’industria di stato» dagli autori, Giuseppe Turani ed Eugenio Scalfari. Uno Scalfari, aggiungerà Cefis anni dopo, che operava «non per ragioni ideali o di principio ma perché la Fiat era per lui una miniera d’oro inesauribile».
Prima di Razza padrona era arrivato Questo è Cefis di Giorgio Steimetz (nome di copertura del vero autore) edito dall’agenzia giornalistica Ami esclusivamente per spillare quattrini a Cefis. Proprio quando stava in mezzo al guado, nel salto dall’Eni alla Montedison. Altro libro avvelenato L’assassinio di Enrico Mattei di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi. Qui, ovviamente, sul delitto si fa aleggiare l’identikit di un mandante. Assai somigliante a Cefis. Anni dopo uno degli autori ammetterà che il libro nasce su input molto concreto di Giorgio Valerio, il patriarca dell’archeocapitalismo milanese messo in croce dalla scalata di Cefis. Altre volte è il giornalista neofascista Giorgio Pisanò che bussa a quattrini, facendo soffiare aria di reportage e scoop. Sedati da generosi interventi.
Nello stendere coraggiosamente il catalogo di questa leggenda Morando fa emergere la patologica fisiologia di un giornalismo che, spesso, va oltre ogni spregiudicatezza deontologica.
Da questa fabbrica informativa esce alla fine la leggenda. E la leggenda produce l’avatar di un Cefis incarnazione e origine di buona parte dei mali che hanno azzoppato l’Italia. Che ci hanno guastato.
Guastato chi e cosa? A quanto pare hanno guastato quel paese che prima era puro e autentico. Abitato da un popolo che, senza i Cefis e quelli come lui, aveva genuinità di pensieri e freschezza di gesti quotidiani. E semplicità di luoghi. Dove, dal buio di notti serene, sarebbero spuntate ancora le lucciole.
Le lucciole, appunto. Pasolini, nell’articolo sulle lucciole apparso sul Corriere della Sera nel febbraio del 1975, ha in mente proprio Cefis, presidente della Montedison, quando evoca quel «potere reale» contro il quale si scaglia. Un articolo che si conclude così: «Sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola».
La leggenda nera
Quando Pasolini scrive l’articolo è, da tempo, alle prese con Petrolio. Lavora al canovaccio di romanzo nel quale vuole raffigurare e trafiggere il nuovo «potere reale» che a suo parere sta imponendosi sull’Italia. Al centro della sua narrazione c’è un personaggio che esplicitamente fa riferimento a Cefis. Tratteggiato attingendo alla leggenda alla quale si è appena fatto riferimento. È un Cefis che, tra l’altro, sta mettendo le mani sul Corriere sul quale scrive Pasolini. Infatti tra poco aprirà ingenti fideiussioni (per nove miliardi di lire) alla cordata rizzoliana-piduista prossima a sbarcare in via Solferino. Un Cefis dunque quanto mai adeguato a indossare la leggenda che gli viene cucita addosso. E che gli sta attribuendo sempre più inquietanti connotazioni.
Su questa narrazione incombe soprattutto il copione quasi shakespeariano, del come e perché si sia insediato al vertice dell’Eni. Dopo l’incidente aereo, nell’autunno del 1962, che ha fatto fuori Mattei, il fondatore dell’ente petrolifero di stato.
Una tragica uscita di scena che vede Cefis lontano. Da pochi mesi, spiazzando tutti, ha rotto il sodalizio con Mattei. Del quale è stato il braccio destro, l’artefice delle missioni più riservate. Un sodalizio sorto sin dall’immediato dopoguerra, dopo che lui e Mattei si sono conosciuti, e apprezzati, nel vivo della lotta partigiana. Dove Cefis, operando in val d’Ossola, lavora in stretta sinergia con l’intelligence anglo-americana che sta a ridosso del confine italo-svizzero.
L’ipotesi che la leggenda diffonde è che Cefis, formatosi all’accademia militare e perfezionatosi in ruoli attigui al servizio informazioni dell’esercito, pur dismessa la divisa, continui a essere quel che è sempre stato. Non tanto un militare di mestiere quanto un professionista dell’intelligence. Dislocato sullo scacchiere economico e politico italiano.
Di certo ovunque Cefis pianti il suo bastone di comando sboccia nei dintorni la sua rete informativa. La mano felpata delle sue operazioni speciali. Delle sue guerre silenziose. Informazioni capaci di condizionare, intimidire, corrompere. Segreti pescati calando le reti dei dossieraggi e delle intercettazioni telefoniche. Mettendo all’opera gente di fiducia dentro servizi segreti e polizie parallele. Senza rinunciare ovviamente a investigatori privati, come Tom Ponzi, pagati direttamente con i fondi aziendali.
Giochi di guerra
È un flusso mai interrotto di rivelazioni che pendono sul destino degli avversari. È la continua pianificazione di giochi di guerra calati in un conflitto sommerso. In palio ha il potere. Scontri da condurre in silenzio e con la massima riservatezza. Così – nel libro di Morando non mancano certo gli esempi – Cefis cerca di sottomettere la politica. Piegare le istituzioni. Indurre alla resa chiunque pensi di resistere alle sue scalate.
In questa biografia è ricostruita dunque, con molti dettagli, la disinibita attitudine di Cefis a presidiare con le spregiudicate modalità della sua formazione militar-spionistica ogni crocicchio politico-economico-affaristico cruciale per la sua ascesa.
Ma il valore aggiunto del libro di Morando non sta solo qui. Consiste nella lucida analisi del sorgere, irrobustirsi e ramificarsi della leggenda nera cucita attorno a Cefis. Qui Morando dà veramente il meglio del suo lavoro perché stende ogni tassello di questa ammorbata architettura narrativa sul tavolo anatomico. Ne viviseziona le fibre, i flussi, le metabolizzazioni. Cose che ancora oggi permangono nelle ricostruzioni di pagine cruciali di storia nazionale.
Questa analisi implica anche chinarsi sul lavoro di mostri sacri, come Pasolini. E dimostrare come quei testi, quei bagliori di «verità occultate», che appaiono in Petrolio, e poi vengono ripresi da ulteriori epigoni convinti di possedere la chiave interpretativa di ogni male italiano, fuoriescano da pessime fonti. Anzi, peggio. Sono spesso il prodotto di una fabbrica di disinformazioni, di ricatti, di illazioni su vicende «indicibili» e «misteri insolubili». Elaborati da quella editoria del ricatto sulla quale Morando si sofferma con coraggio e acutezza.
Leggendo Morando si apprende, sorprendentemente, come Cefis, sempre parco di interviste, e assai poco loquace, in varie fasi della sua vita abbia dedicato ore e ore per ricostruire in dettaglio i passi della sua complicata biografia. Lo ha fatto rispondendo a sollecitazioni di storici magari non noti ma rigorosi nell’adesione ai fatti. Con loro è disposto, per giorni e giorni, a rievocare pagine della sua vita. A partire dalla Resistenza sino alle brucianti “guerre” petrolifere e chimiche, con annesse ripercussioni politiche, dei decenni successivi. Lo fa, quando ormai ha lasciato ogni carica, con Giuseppe Locorotondo, dell’Ufficio storico dell’Eni. Stessa cosa avviene con Marino Viganò, appartato e puntiglioso storico di Varese, col quale, in quasi cento pagine di testimonianza, ricostruisce i suoi esordi, dall’Accademia militare alla Resistenza sino al legame con Mattei.
Forse è proprio Viganò a fornire la chiave di volta per apprezzare il valore dirompente della biografia che Morando dedica a Cefis. Ci riesce con lapidaria chiarezza quando, commentando la leggenda nera sorta attorno a tante vicende, ricorda quello che tutti dovremmo rammentare.
I misteri non ci sono. Anzi, non dovrebbero esserci. Perché «dietro ogni mistero c’è solo una pessima ricerca».
Paolo Morando è autore del libro Eugenio Cefis. Una storia di potere e di misteri, edito da Laterza
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