- Ha davvero qualche utilità specificarlo, o non è già un fatto palese che il motivo per cui leggiamo le biografie degli artisti è quello di spigolare tra le loro pagine finché, finalmente, il biografo ci racconta qualche loro viziosità?
- Ma qui ci si vorrebbe occupare di un’altra creatura editoriale. Sto parlando dei libri di interviste agli artisti.
Passare al pettine questi libri consente di osservare alcuni tra i maggiori scrittori, pittori e registi in tutta la loro solita abilità di falsari accreditati, ma che, per il solo istante dell’intervista, sono dispensati dalla semidivinità che si sono guadagnati con le loro opere di genio.
Che valga la pena dirlo anche se è talmente evidente? Ha davvero qualche utilità specificarlo, o non è già un fatto palese, neanche da farne una confessione spudorata, che il motivo per cui leggiamo le biografie degli artisti è quello di spigolare tra le loro pagine finché, dopo ammirevoli gesta e troppi trionfi, finalmente il biografo ci racconta qualche sporcizia, qualche viziosità di cui il ragguardevole artista si macchiava abitualmente? Fin troppo simile all’adolescente del racconto di James Joyce Le due sorelle, che pur provandone ripulsa, smaniava di star vicino a un anziano prete paralitico e moribondo, ai suoi denti giallastri e alla sua lingua penzolante, il lettore di biografie scorre quelle pagine attratto dalle vergogne più sconce del suo beniamino. Le indecenze sono le pepite che si chiedono a quei libri, e non il lindo encomio dell’artista immacolato riguardoso verso il prossimo e con la camicia inamidata di fresco.
A New York già friggono perché il biografo di Philip Roth lo racconta come un infuriato maniaco sessuale e a Berlino fremono per la recente biografia di Thomas Bernhard in cui il fratellastro lo descrive come un “demone” e “un vampiro”, per di più essenzialmente asessuato.
I libri di interviste
Ma qui ci si vorrebbe occupare di un’altra creatura editoriale che ugualmente regala curiosità gaie e approfondimenti spesso disimpegnati sugli artisti, ma che di solito, rispetto a quanto non accada con le biografie, vanta una loro maggiore condiscendenza: il più delle volte, infatti, in questo secondo caso, gli interessati sono vivi e vegeti. Sto parlando dei libri di interviste agli artisti. Dico i libri in cui gli artisti confessano opinioni altrove improferibili, in cui parlano a botta calda di quel collega sin lì segretamente detestato, in cui mostrano la loro fierezza con vanità, la loro regalità, e in cui raramente professano indulgenza per qualsiasi altro che non porti il loro stesso nome. Passare al pettine questi libri consente di osservare alcuni tra i maggiori scrittori, pittori e registi in tutta la loro solita abilità di falsari accreditati, ma che, per il solo istante dell’intervista, sono dispensati dalla semidivinità che si sono guadagnati con le loro opere di genio.
In libreria recentemente sono arrivati Vladimir Nabokov, Orson Welles e lo stesso Thomas Bernhard (i primi due con Adelphi e l’austriaco con il piccolo editore pesarese Portatori d’acqua): c’è qualcuno che vuol rinunciare a sapere direttamente dal primo quale sia la corretta pronuncia del suo cognome, o come il secondo riveli che la ragione per cui ha lasciato il teatro è che non si ricordava mai i nomi di quelli che andavano a salutarlo nel camerino, o dove il terzo dichiari che non ha mai desiderato in vita sua di incontrare altri scrittori?
Gli artisti intervistati sarebbero anche dispensati dalla genialità e dalla responsabilità di aver scritto Ardore o aver girato Quarto potere, eppure in queste conversazioni si respira sempre un’aria molto frizzante, d’alta quota: gli intervistati civettano, si ritraggono per poter prendere la rincorsa e mandare al tappeto il tale che ha appena osato fare un domanda tanto stupida, qualcuno buffoneggia e un altro risponde compìto anche alle domande più sciocche soltanto per non avere tra i piedi quello scocciatore un minuto di più.
Il più intelligente di tutti è forse stato Witold Gombrowicz che, quando il critico Dominique de Roux lo raggiunse a Vence, in Provenza, dove lui soggiornava per i suoi problemi polmonari, e gli mise sotto il naso il registratore, gli disse che avrebbe voluto occuparsi lui di ogni cosa. Quell’altro docilmente si adeguò e così negli ultimi due anni della sua vita Gombrowicz si intervistò da solo, ponendosi le domande e dandosi le risposte.
A partire dal 1978 fino al 1985, pressoché tutte le settimane, Orson Welles e Henry Jaglom pranzarono insieme in uno dei ristoranti più à la page di Hollywood. Da tre anni, dove prima c’era una fabbrica di moquette, il Ma Mason serviva senza troppo talento piatti di cucina francese ammorbidita dal sole della California, e il suo proprietario era talmente snob che non ne rendeva noto il numero di telefono. Welles lasciava la carrozzella accanto alla porta di servizio, attraversava la cucina e si sedeva a destra dell’entrata su una sedia gigantesca. Il giovane regista inglese, prima lo convinse a recitare nel suo primo film la parte di un illusionista, e poi a concedergli la sua amicizia all’ora di pranzo. Welles, che sapeva che Jaglom aveva registrato per trent’anni il padre che raccontava i suoi ricordi, gli chiese di fare altrettanto con quelle loro conversazioni. Di due argomenti soltanto non si parlava al tavolo del Ma Mason: del registratore, che doveva sempre rimanere nascosto nella borsa dell’inglese, e del peso di Welles.
Bernhard, invece, rilasciò l’intervista di notte, dopo aver cenato in compagnia del suo intervistatore, unici avventori in una sinistra trattoria che rifilò loro soltanto avanzi e molto vino. Moltissimo vino. Ma se la mattina dopo essersi ubriacato a causa di Iago, Cassio si vergogna per aver straparlato – «Oh, santo Dio, che debbano i mortali cacciarsi loro stessi nella bocca un nemico che ruba loro il senno, e con gioia, piacere e gozzoviglio si debbano trasformare in tante bestie!» – Bernhard, al contrario di quanto non avvenga a quel personaggio dell’Otello di Shakespeare, durante l’intervista, pure da alticcio, ha la stessa logorroica nitidezza che hanno i suoi romanzi. Spiega che tiene pochi libri alle pareti per la stessa ragione per cui se lavorasse in latteria non vorrebbe avere del burro in casa. Dice che durante il periodo trascorso in sanatorio cantava. Che ha sempre desiderato diventare famoso, e il mezzo gli «era del tutto indifferente». E che quel che lo disturba dei suoi stessi libri è che non lo soddisfino mai, mai una volta che sia riuscito a fare davvero quello che avrebbe voluto. E dice che è da questa insoddisfazione perpetua che nasce ogni suo romanzo successivo.
Nabokov i suoi intervistatori se li cucina tutti esattamente come vuole lui. Non spreca il suo tempo a essere gentile con loro. Ci sono uomini, scriveva Jakobsen nel 1873, che vivono come se vivere fosse la cosa più naturale di tutte. Così allo stesso modo ce ne saranno altri che rispondono alle interviste come se quella fosse la più naturale tra le cose da fare: di certo Nabokov non si considerava tra questi. Aveva quindi istituito tre tassativi requisiti per qualunque giornalista che desiderasse conoscere la sua opinione su Dostoevskij o sui lepidotteri: in primis esigeva che le domande dell’intervistatore gli fossero inviate per iscritto, in secundis quelli avrebbero ricevuto le sue risposte scritte, e per ultimo le risposte avrebbero dovuto essere riprodotte alla lettera. Erano le tre condizioni inderogabili. Certo, l’intervistatore avrebbe tanto voluto andarlo a trovare a casa, avrebbe tanto voluto vedere la «matita a mezz’aria sopra la pagina, il mio paralume dipinto, gli scaffali dei miei libri, il mio vecchio borzoi bianco appisolato ai miei piedi». Neanche per sogno. Volevano sapere della genesi di Lolita o del suo rapporto con la Russia? Scrivessero le domande, attendessero le sue risposte scritte e per ultimo non si azzardassero a modificarne una sola virgola.
Testimoni vicini
I libri d’interviste somigliano a quelle scatole di legno realizzate nel 1961 dall’artista Robert Morris, le Box with the sound of its own making. Come in quelle, da cui fuoriescono i rumori di sega, martello e cacciavite che sono stati prodotti per confezionare le stesse scatole ora esposte agli occhi del pubblico, nelle interviste udiamo come testimoni di prima vicinanza e ci accorgiamo persino di partecipare, anche noi seduti nel casale di Bernhard, più o meno brilli, anche noi al tavolino del Ma Mason a ordinare insalata di pollo purché il cameriere si assicuri di persona che in cucina la prepareranno senza capperi, e, nonostante tutte le precauzioni di Nabokov, anche noi in compagnia del levriero bianco appisolato ai piedi della sua scrivania.
Tutte le volte, in tutti quei loro pranzi, Orson Welles riservava a sé stesso l’ultima parola. E così ebbe l’ultima battuta anche nell’ultima conversazione con Jaglom al tavolo del Ma Mason. Il 10 ottobre 1985, la sua ultima risposta, cinque giorni prima dell’infarto fatale che lo colpì nottetempo, fu: «A questa non rispondo».
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