- Film di culto come Hellraiser e Kill Bill ci mostrano che la crudeltà, il sadismo, addirittura la sociopatia possono nascere da una infantile curiosità per come funzionano le cose (o le creature, ridotte appunto a cose). La stessa curiosità animava Leonardo e Vesalio quando inventarono l’anatomia.
- Da bambino si complimentavano con me quando capivo il funzionamento di suppellettili, elettrodomestici e computer, ed ero capace ad aggiustarli. Il mio valore di ragazzo e poi di uomo ha continuato a misurarsi in abilità pratiche coi marchingegni, dai rubinetti alle macchine.
- Che bello sarebbe invece se più spesso lodassimo i bambini quando illustrano con precisione ciò che provano. Ci servirebbe di meno il “bonus psicologo”, che invece, per ora, è davvero urgente. Clicca qui per iscriverti gratuitamente alla newsletter e segui tutti i contenuti di Cose da maschi.
C’è un’ombra di violenza, addirittura di crudeltà, nell’impulso di capire come funzionano le cose. Non mi stupisce il fatto che l’anatomia moderna sia nata insieme alla moderna ingegneria e nelle stesse menti di maschi, negli anni in cui l’occidente metteva a punto gli ordigni militari e filosofici che avrebbe detonato per soggiogare gran parte dell’umanità e delle terre di un mondo che doveva ancora ampiamente scoprire.
Leonardo da Vinci disegnava corpi umani, cannoni e macchine idrauliche analogamente, architettando modi di vederli sia dentro che fuori: ne esplodeva i gangli con un’oscenità cui ora siamo insensibili ma che allora appariva impudica, addirittura blasfema.
Se guardo i suoi taccuini anatomici (proprietà della regina d’Inghilterra), o i finissimi lavori del suo contemporaneo fiammingo Andrea Vesalio, professore di chirurgia all’università di Padova e autore dei sette volumi del De Humani Corporis Fabrica, non riesco a non pensare al Frank Cotton di Hellraiser (capolavoro splatter del 1987) che si risveglia senza pelle da un sogno di morte nella sua soffitta.
Sadomasochista, il protagonista squartato di quel film horror di culto era stato rapito dagli iconici mostri Cenobiti in una dimensione aliena di dolore e piacere perché, in quella soffitta, aveva risolto un diabolico rompicapo nordafricano: la “configurazione dei lamenti”, una scatolina il cui marchingegno, congegnato dal mitico architetto malvagio Philip LeMarchand, attira i peccatori col richiamo di un ingranaggio di cui capire il funzionamento. La faustiana ricompensa per la soluzione è quella appunto di diventare a propria volta ingranaggi nelle mani dei Cenobiti.
Questa fortunata mitologia (ne hanno tratto dieci film) ha qualcosa a che fare, credo, con la più recente manovra economica approvata dal parlamento: è saltato il “bonus psicologo” ma è stato confermato il “bonus rubinetti”.
Idraulica e maschi alfa
Non sono il primo a connettere, tra i tanti bonus entrati e usciti dalla manovra, rubinetti e psicologi; il filtraggio dell’acqua e l’immortalità dell’anima. Né starò qui a fare dell’umorismo semplicione: so bene che non si tratta banalmente di rubinetti, e che ci sono aspetti di ecologia e di salute pubblica da considerare nella decisione di agevolare la sostituzione di apparecchi vetusti con miscelatori di maggiore efficienza idrica e sicurezza.
Tuttavia, la gerarchia di priorità mi pare interessante: un paradigma utile a capire la pervasività del patriarcato e l’effetto che ha nel plasmare i maschi. Sono i maschi, infatti, a resistere al concetto stesso di salute mentale, ricorrendo raramente e con imbarazzo alla psicologia come se le proprie naturali fragilità fossero difetti squalificanti – non a caso, il tasso di suicidi è largamente maggiore tra chi si identifica come uomo. E sono sempre i maschi a misurare il proprio valore sulla capacità di capire come funzionano i rubinetti – per installarli, aggiustarli o sostituirli.
Quel che fanno i depravati Cenobiti di Hellraiser, come diversi extraterrestri dagli anni Settanta a X-Files, è appunto ridurre l’umano alla sua basilare essenza idraulica, meccanica, per cavare l’anima da un governabile catalogo di viscere. Godono nello smontare le creature come fossero macchinari, per risolverle.
La crudeltà dello smontare
La figlia di Bill, in Kill Bill, toglie il suo pesce rosso dalla boccia per curiosità, cerca di capire cosa stia facendo quando annaspa sul tappeto e, infine, lo calpesta. Solo allora si rende conto di averlo ucciso, ma non se ne rammarica.
Si dice sia questa la caratteristica dei sociopatici sin dall’infanzia: una curiosità per il funzionamento delle cose non frenata dall’empatia psicologica, che li porta a fare del male a piccoli animali (e poi ad animali più grandi e infine al loro prossimo) essenzialmente per curiosità, come fossero appunto cose.
Persino delle cose però si può avere pietà, se la pietà consiste nel tenerle integre, custodi inviolate dei loro segreti. Nel primo film Pixar, Toy Story, il bambino che possiede i giocattoli protagonisti li tratta bene, se ne prende cura, mentre il vicino di casa appare crudele e folle perché invece i suoi li smonta, li spacca, addirittura ne mescola le parti producendo nuovi spaventosi balocchi ircocervi.
Da piccolo trovavo questo secondo bambino stupido e cattivo. Evidentemente avevo già scordato, verso gli otto anni, che dall’asilo fino almeno alla seconda elementare mi ero comportato esattamente come lui. Non c’era pupazzo di cui non volessi conoscere le ovatte intestine, modellino d’automobile o robot che non volessi decostruire fino ai componenti irriducibili; mi fermavano solo le viti e le cuciture strette. Anzi, nemmeno quelle visto che, armato di forbici dalla punta arrotondata, disfeci famosamente un’intera vestaglia di pregio di mio padre, per verificarne la sostanza.
Fino a molto più tardi (forse anche oggi) non sono riuscito a non smontare le penne che mi sono capitate a tiro fino all’anima di molla e cartuccia a sfera. C’era (c’è) davvero uno spettro di cattiveria in questo impulso? È lo stesso che spinge Frank Cotton a trafficare con la configurazione dei lamenti? Una curiosità sorella di quella della figlia di Bill, di quella di Leonardo e Vesalio?
Talenti maschili
Se potessi accedere a un “bonus psicologo”, la terapista che sceglierei mi aiuterebbe forse a collegare quell’impulso con il plauso che ho sempre ricevuto quando dimostravo, da bravo ometto, di capire cosa ci fosse sotto l’epidermide delle cose, e di poter sfruttare tale intuizione per farle funzionare meglio.
Ero bravo quando svitavo la base del tappo della vasca perché raggiungesse il meccanismo che lo solleva tirando la levetta, quando infilavo uno stuzzicadenti nel cavo del tasto rotto della televisione per cambiare canale, quando risolvevo cose di computer. Ancora oggi pochissime soddisfazioni sono più autentiche per me di quelle che mi procura sistemare da solo (magari guardando un tutorial su YouTube) un problema dell’automobile, sollevando il cofano e tutto, come mi pare che mio padre, Tony Stark e Clint Eastwood siano sempre stati capaci di fare, senza che nessuno glielo insegnasse.
Pare che ci si debba nascere bravi (e maschi). Invece, ci si diventa. Ricordo la vergogna del primo cambio d’olio, fatto tardissimo perché onestamente non avevo idea che uno dovesse sapere quando cambiare l’olio. Ricordo anche che non sapevo di dover dare un calcio all’aggeggio per svitare i bulloni della ruota della macchina la prima volta che dovetti cambiarla.
Proprio io, così bravo, così intelligente, cadevo su simili ovvietà note a tutti. A cosa erano servite tutte quelle penne svitate, tutti quei compassi ridotti ai loro minimi termini e poi rimontati perfettamente come il fucile di un marine?
Uomo in affitto
Dai ragazzi ci si aspetta che sappiano interpretare le valvole e i pistoni del motorino più che quelle del loro umore, dei loro desideri, della loro felicità. È normale che un uomo non sappia spiegarsi, che taccia quando soffre e sia impacciato nell’esprimere il proprio affetto persino per i figli, ma è svilente se non sa aggiustarsi da solo le cose di casa. Quelle cose una donna deve usarle, un uomo procurarle e manutenerle col proprio olio di gomito; capire come funzionano, risolverle come il rompicapo di Hellraiser.
Mentre scrivevo l’inizio di questo ragionamento, Michela Murgia, che di disequilibri di genere se ne intende, mi raccontava che, quando abitava a Torino, incappava continuamente in annunci pubblicitari che recitavano «uomo in affitto». Pensando al Mark Renton di Trainspotting, che tutti prendono in giro chiamandolo “rent boy”, cioè ragazzo in affitto (cioè prostituto), ho avuto per un attimo la visione di una Torino a luci rosse, ma Michela mi ha subito spiegato che invece quei volantini offrivano lavoretti da idraulico, elettricista, falegname, fabbro e imbianchino: quelle piccole fatiche per cui un uomo di casa non chiama un professionista, facendo da sé.
Sono questi dunque i servizi che un uomo offre, su cui un maschio si misura. I «rubinetti da cambiare», come recita il lamento di una bella canzone di Francesco Bianconi interpretata da Irene Grandi.
Dai rubinetti alla psiche
La grande pensatrice bell hooks, da poco e troppo presto scomparsa, ha detto che un compito cruciale del femminismo è quello di amare i maschi, e di amarli per quello che sono, non per quello che fanno.
Che bello sarebbe se più spesso trovassimo creativi e ingegnosi i bambini quando illustrano con precisione ciò che provano invece che quando sezionano le suppellettili o risolvono un rompicapo. E se lodassimo i ragazzi quando chiedono aiuto per una ferita di psiche, che non si vede neanche in un disegno anatomico esploso di Leonardo. Ci servirebbe di meno il “bonus psicologo” che invece, per ora, è davvero urgente.
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