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Si tiene a Milano, dal 17 al 21 novembre, la decima edizione di BookCity, la manifestazione dedicata al libro e alla lettura.
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Quest’anno BookCity torna in presenza nelle librerie, nei teatri e auditorium, nelle università e nelle biblioteche della città, scegliendo come tema portante la parola “Dopo”. Informazioni e programma completo su www.bookcitymilano.it.
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Qui presentiamo il testo inedito dello scrittore e insegnante Marco Balzano. Balzano parteciperà, tra gli altri incontri, all’evento di chiusura di BookCity il 21 novembre alle 19:00 al Teatro Franco Parenti di Milano.
Partecipare significa letteralmente «prendere parte». Parte è una parola antica, tra le prime del volgare italiano a essere attestate in documenti scritti, per esempio il Placito di Capua del 960.
La parte non è soltanto una porzione o una razione, è qualcosa di più complesso. Siamo di fronte a una parola sia concreta che astratta, che sa facilmente farsi simbolo e metafora.
Ciascuno di noi viene al mondo dopo il parto, dopo essersi staccato da un’unità. La radice della parola, infatti, è collegata al verbo latino parere, che vuol dire appunto «creare», «generare». All’inizio del nostro viaggio c’è una partenza: uscendo dal grembo materno, infatti, rompiamo un’interezza. La vita, fin dal suo principio, è una divisione (o partizione): la perdita di un’integrità che sancirà per sempre la nostra parzialità.
Unione con l’altro
La psicanalisi ci ha fatto comprendere come nel nostro inconscio rimanga una traccia di quella separazione dal grembo materno, e le religioni non fanno che ribadire una promessa di recupero di quell’integrità perduta.
Per colmare la nostra costitutiva incompletezza di uomini non ci resta che prendere parte al mondo che abitiamo: partecipare. Parte, unendosi al verbo latino capere («prendere»), dà vita a un significato nuovo, attivo, che si basa su uno slancio di volontà, pensiamo all’espressione fare la mia parte o scegliere da che parte stare. Se la parte è la porzione che prendo dalla torta intera, la partecipazione è piuttosto la mia fetta di torta che scelgo di aggiungere alle altre presenti sul piatto.
La partecipazione, dunque, è di per sé un atto di confronto, di dialogo e di unione con l’altro. Quello di unirsi in società, di mettere insieme le nostre individualità troppo deboli per affrontare i pericoli della natura e i molteplici bisogni dell’esistenza, è uno dei punti centrali della riflessione filosofica e politica del pensiero moderno, da Thomas Hobbes in avanti.
Perché questo avvenga è necessario che ciascuno porti il proprio contributo rinunciando, evidentemente, a una certa dose di libertà in cambio, per esempio, di una maggiore sicurezza. L’idea di offrire alla collettività il proprio tempo, le proprie energie, ma soprattutto il proprio sapere, era un valore etico e morale già nell’antica Grecia.
Il fine dell’educazione (paideia) è fornire gli strumenti di accesso alla lingua e al pensiero per prendere coscienza di ciò che si è e di ciò che si sa fare. La stessa felicità (eudaimonia) di cui parla Aristotele nell’Etica nicomachea è proprio la scoperta di sé così da poter diventare ciò che di meglio vogliamo essere. Il risvolto sociale è chiaro: soltanto così potrò offrire alla polis la professionalità di cui sono capace e la sapienza di cui sono testimone e rappresentante.
Non sono concepibili, nella forma mentis greca, un’educazione e un sapere che rimangano gelosamente conservati dal singolo individuo: è necessario mettere pubblicamente in opera ciò che si è imparato. È insomma necessario partecipare e, attraverso quest’atto, restituire ciò che la comunità ci ha dato.
Gli indifferenti
Vorrei rimarcare con un ultimo esempio la portata anche politica di questa parola, che oggi sembra così minacciata per varie ragioni a cui cercherò di accennare in chiusura.
La pena peggiore dell’Inferno dantesco è riservata a chi rappresenta il contrario della partecipazione. Gli ignavi o, per usare un termine più moderno, gli indifferenti, sono esclusi persino dal regno del male.
Sono versi famosissimi, ma ai fini di questo discorso vale la pena rileggerne qualcuno (Inf. III, vv. 61-63): «Incontanente intesi, e certo fui che quest’era la setta dei cattivi, a Dio spiacenti ed a’ nemici sui». Dante comprende immediatamente (incontanente intesi) e senza ombra di dubbio (certo fui) che si trova tra i cattivi, ossia tra i vili.
Poco prima aveva parlato di «cattivo coro» (v. 37): è questa la definizione che il poeta conia per coloro che non si sono mai schierati, che non hanno mai combattuto per affermare un’idea del mondo, che non si sono mai riconosciuti negli altri, coloro che appunto non hanno mai preso parte. Questo modo di vivere non è respinto solo da Dio, ma addirittura dai «nemici sui».
Si potrebbe pescare a piene mani dal terzo canto: Virgilio le chiama «anime triste» (v. 35), dove l’aggettivo, come nota Sapegno, «è più sprezzante che pietoso». E sempre Virgilio afferma che ci furono non solo uomini ignavi ma anche «angeli», che «non furon ribelli/ né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro». Gli aggettivi che usa sono più che mai carichi di senso e parlano meglio di ogni esegesi: all’uomo è richiesta una scelta di parte, la ribellione al male e la fedeltà al bene.
Avere un’idea limpida di cosa sia la partecipazione è talmente fondamentale per Dante che quando, nel canto XVII del Paradiso, si trova di fronte Cacciaguida, il suo avo gli parlerà proprio di questo. Cacciaguida, in versi altrettanto celebri, predice al poeta non solo l’esilio ma anche le sventure che ne seguiranno: la croce più grande sarà avere a che fare con la «compagnia malvagia e scempia» con la quale Dante condividerà l’esilio, fino a quando, sdegnato per la loro «bestialitate » (v. 67), si allontanerà.
Dice Cacciaguida (vv. 68-69): «sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso». Dopo aver partecipato e aver pagato le conseguenze della propria esposizione politica e delle proprie scelte, si può arrivare a far parte per sé stessi, sopportando in solitudine la pesante condizione di esule. Ma al contempo, l’espressione che Dante sceglie afferma l’intenzione di proseguire un impegno, non la rinuncia, confermando la strenuità della partecipazione nonostante la solitudine.
In questa profezia c’è la promessa di un’ostinata volontà ad offrire il proprio contributo, anche nella più difficile delle situazioni. E se Dante non potrà, fuori da Firenze, fornirlo con la politica attiva, il suo «far parte» consisterà nella creazione di un’opera letteraria in grado di superare e trascendere la politica stessa.
Partecipare in democrazia
Così supportati possiamo provare a portare il discorso nel presente, cercandovi ciò che rimane del significato originario che l’etimo rivela e cosa delle idee di Aristotele e di Dante.
L’articolo 3 della nostra Costituzione dichiara: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Questo articolo esplicita le condizioni necessarie perché possa svilupparsi e diffondersi un atteggiamento partecipe. Senza un’emancipazione economica e sociale il cittadino non potrà prendere parte in maniera consapevole alla vita democratica del paese.
Ho sempre pensato che il terzo articolo, tra gli ostacoli da rimuovere, sottintenda anche quelli culturali. Senza autonomia culturale, infatti, non può esserci quella partecipazione qualificata che fa sussistere una democrazia. È una distinzione importante quella a cui la Costituzione chiaramente allude: esiste, infatti, anche una partecipazione passiva, quella della massa, del gregge; una partecipazione che è solamente aggregazione e adesione e che non basterebbe ad alimentare una democrazia.
Occorrono un’istruzione e un’educazione libere e accessibili a tutti, altrimenti non può esserci partecipazione nel senso pieno del termine, quella che rende la democrazia un sistema efficiente, sebbene complesso e articolato, perché composto da cittadini consapevoli dei propri diritti e doveri. Occorre autonomia economica, sociale e culturale, se non si vuole scivolare verso forme autoritarie o cadere in una dittatura, compresa quella che l’Italia si era appena lasciata alle spalle quando la Costituzione è stata scritta: i totalitarismi, infatti, esigono partecipazioni forzate (tessere e adunate), pretendono folle esultanti che idolatrano il loro capo, ma non possono tollerare una comunità istruita ed emancipata, perché in tal caso avrebbero davanti cittadini critici, non sudditi addomesticati.
La partecipazione è talmente vitale per una democrazia, che la Costituzione – oltre a prevederla tra i principi fondamentali – la chiama in causa in almeno altri tre articoli. Nell’articolo 39 si legge che «l’organizzazione sindacale è libera», nel numero 49 che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», e nel numero 51, infine, si sottolinea che «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza […]. Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro».
Motto gramsciano
Antonio Gramsci, che notoriamente odiava gli indifferenti, insegna che per partecipare, per fare la propria parte e provare a dare alla società e al mondo il volto migliore, occorre istruirsi, agitarsi e organizzarsi. «Istruitevi, agitatevi, organizzatevi» è il famoso motto che compare sul primo numero dell’Ordine nuovo nel maggio del 1919.
Dell’istruzione abbiamo detto. Agitarsi vuol dire riconoscere le storture e reagire, conservare un senso della giustizia e dunque dell’indignazione di fronte al male e alla disuguaglianza. Organizzarsi, infine, significa avere un’idea della relazione con l’altro, prendere parte a una battaglia che non potremmo vincere da soli. Dietro il verbo «organizzarsi» c’è l’umiltà di chi si sente una parte e non un tutto, di chi ha fiducia nell’essere umano che gli sta a fianco e lo crede determinante per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo comune. E c’è, ancora, un’idea di ribellione che esclude l’improvvisazione proprio perché presuppone un sapere, un dialogo e un coordinamento.
Il ribelle (etimologicamente «colui che torna a fare la guerra») sa benissimo che la sua missione, per non rivelarsi velleitaria, deve avere alle spalle un pensiero e una strategia. E non è un caso che durante i venti mesi di Resistenza i partigiani, tra loro, si chiamassero per lo più ribelli. Il partigiano è chi ha scelto da che parte stare e lo mette in pratica tornando a fare la guerra insieme ad altri partigiani, ribellandosi al male del nazifascismo per cercare di fondare un mondo che vada nella direzione opposta.
Per tutto questo ha bisogno della massima organizzazione: chi ha fatto il partigiano da solo, infatti, si può chiamare disertore, renitente, imboscato nel peggiore dei casi, mentre la partigianeria prevede in ogni caso un gruppo di azione.
Mi ha sempre colpito che il motto gramsciano non sia suscettibile di alcuno spostamento, pena la perdita di significato. Questi tre imperativi hanno senso solo insieme e così disposti, se ne togliamo uno solo avremo istruiti organizzati ma non agitati, agitati istruiti ma non organizzati, o agitati organizzati ma non istruiti, come se ne vedono parecchi di questi tempi.
Voglio dire che la parola partecipazione, a ben guardare, non basta a sé stessa: se ne riduciamo il senso alla sola aggregazione, tradiamo il suo significato. Aggregarsi, del resto, deriva da gregge, che a sua volta deriva da una radice che indica semplicemente l’avvicinamento e il compattarsi.
I rischi
Gli esempi passati in rassegna – a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri – ci ricordano quindi che si può chiamare così soltanto ciò che richiede studio, azione e dialogo.
Su Facebook esiste un tasto, «Parteciperò», che compare quando qualcuno ci invita a un evento o a un’iniziativa. Secondo me restituisce molto bene il rischio che corre in questo momento la parola e dunque quello che corriamo tutti noi. Se la partecipazione viene accomodata al punto da ridursi a un click, non implica nessuna delle azioni descritte poco fa.
Gli strumenti e il tipo di eventi disponibili oggi, specialmente dopo la pandemia, consentono una partecipazione «non partecipata», superficiale e passiva. Si partecipa a tutto e in fondo a niente, si aderisce a qualcosa verso cui non ci viene richiesto né di fare la nostra parte né di assumerci alcuna responsabilità. La partecipazione, così, rischia di diventare un atto confuso e indistinto, di ridursi a mera adesione o, addirittura, a presa visione.
Se è vero che le democrazie, a differenza dei totalitarismi con le loro adunate forzate, tollerano un certo grado di non partecipazione e di astensione, occorre però chiedersi quale sia il limite massimo oltre il quale una democrazia rischia di implodere, e occorre riflettere ancora a lungo sulle implicazioni di questa parola perché non venga confusa con qualcosa di troppo facile, immediato e superficiale. Come un click.
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