A differenza di altri paesi europei, dove le fratture etnico-territoriali e le rivendicazioni indipendentiste hanno spesso prodotto narrazioni e immaginari utili a ricomporre i drammi di una comunità nazionale, l’Italia aveva finora fatto i conti soprattutto con il terrorismo politico anni Settanta. Ora arriva un bel noir su Befreiungsausschuss Südtirol, l’organizzazione responsabile di decine di attentati dinamitardi per chiedere la riannessione della regione all’Austria
«Una lunga catena di depistaggi e omissioni che hanno tentato di minare il processo d’integrazione ed equilibrio che con tanta fatica abbiamo raggiunto qui in Sud Tirolo. Questa vittoria delle istituzioni è una dimostrazione che quello che noi adesso siamo non può più essere diviso».
Nel discorso finale del sostituto procuratore Eva Kofler (interpretata da Elena Radonicich) si racchiude il senso di una serie tv anomala non solo per il servizio pubblico della Rai che l’ha mandata in onda, ma forse per l’intero sistema della fiction italiana.
A differenza di altri paesi europei, dove le fratture etnico-territoriali e le rivendicazioni indipendentiste hanno spesso prodotto narrazioni e immaginari utili a ricomporre i drammi di una comunità nazionale, l’Italia ha fatto i conti (nel cinema come nella serialità televisiva) soprattutto con il terrorismo politico che insanguinò la Repubblica negli anni Settanta.
Ad accendere i riflettori su una vicenda dolorosa quanto spesso dimenticata, ci ha pensato Brennero, brillante fiction in quattro serate e otto episodi trasmessa da Rai 1 e resa sin da subito interamente disponibile sulla piattaforma RaiPlay.
Prodotta da Rai Fiction con Cross Productions per la regia di Davide Marengo e Giuseppe Bonito, la serie muove da vicende che richiamano le azioni della cosiddetta Befreiungsausschuss Südtirol, l’organizzazione responsabile di decine di attentati dinamitardi per chiedere la riannessione del Sud Tirolo all’Austria, per poi tramutarsi in un noir poliziesco decisamente anomalo per ambientazione, tonalità, complessità dei livelli d’indagine e ricorso al bilinguismo, espediente insolito per la nostra serialità.
Via dai cliché
In un Alto Adige lontano dagli stereotipi da cartolina, dove prati, laghi e montagne incorniciano di colori autunnali una Bolzano fredda e grigia nei campi lunghi del paesaggio come nelle stanze e nei corridoi della procura, la serie segue le azioni di un misterioso serial killer che sembra colpire solo vittime di lingua tedesca e che per gli inquirenti segna il ritorno di un “mostro” capace di colpire già qualche anno prima (qui il riferimento corre al “mostro di Bolzano”, un serial killer di prostitute attivo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con intenti e modalità differenti da quelli in cui la serie intende andare a rifugiarsi)
A indagare a fianco del sostituto procuratore Eva Kofler, viene incaricato l’ispettore Paolo Costa (Matteo Martari, bello e dannato del noir nazionale), riammesso in servizio dopo che in un folle inseguimento al presunto “mostro” aveva causato la morte di una giovane collega. Kofler e Costa sono diversi: di lingua tedesca, razionale e impenetrabile lei, di lingua italiana, spaccone e insofferente alle regole lui.
Due stereotipi forzati delle rispettive culture che naturalmente finiscono per attrarsi e integrarsi rivelando per ciascuno lati nascosti, improbabili passati, fragilità latenti e legami difficili (lei con l’ingombrante padre, ex procuratore, lui con la sua fisioterapista, single con figlio adolescente a carico).
La trama
Kofler e Costa si muovono in un frastagliato sistema di depistaggi e bugie che risale fino alla “Notte dei fuochi”, la Feuernacht del 12 giugno 1961, quando terroristi sudtirolesi fecero saltare con decine di ordigni i tralicci dell’alta tensione seminando il buio nell’intera regione; una concessione al contesto storico, il ripescaggio dalla memoria locale di una ferita aperta, il rimosso di una terra oggi associata unicamente alle sue cime e al turismo.
Poco prima del primo omicidio del serial killer, la serie si apre con una partita di hockey su ghiaccio, vera religione sportiva da quelle parti, seguita e commentata con cori e urla nella doppia lingua; in un bar italiano e in uno tedesco i tifosi bolzanini assistono alla stessa impresa della squadra della città. I due protagonisti, aggiornamento interetnico di un classico del poliziesco americano (la coppia), disvelano poco alla volta segreti che si annidano in una vecchia caserma dei vigili del fuoco, bugie che coinvolgono l’esercito italiano e le più alte sfere della procura, tensioni identitarie del passato che rischiano di riesplodere improvvisamente in una tranquilla città di provincia, dove la convivenza viene data ormai come conquista raggiunta.
Pur con alcuni limiti di scrittura e recitazione e con le classiche sovrapposizioni melodrammatiche cui nessun poliziesco del servizio pubblico può mai realmente sfuggire, Brennero appare come il tentativo di aggiornare il panorama delle detective stories nostrane su almeno un paio di livelli: la cornice geografico-paesaggistica che rigetta lo stereotipo e colora di affascinante realismo i luoghi e il contesto storico-politico nel quale la trama viene calata, ricercando una pacificazione che sembra più pretesto narrativo che reale necessità di superare divisioni ormai da tempo ricomposte.
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