«Fu trovato morto il 27 luglio (del 1965) in un albergo di Milano e solo pochi amici poterono (accompagnarlo) per un ultimo saluto al cimitero dove sono accolti coloro che muoiono senza eredi e senza essere schedati all’anagrafe milanese». Eugenio Montale non specifica però la causa (ufficiale) del decesso: un attacco di cuore.

Quali libri e quali oggetti Bobi aveva portato con sé? Forse – se accuratamente esaminati – avrebbero potuto indicarci frammenti di un testamento intellettuale e persino spirituale, lui che «aveva imparato da Chuang-tzu che il sapiente lascia il minimo di tracce» – con la unica grandiosa eccezione, nel suo caso, di due immaginifici progetti editoriali, il primo senza esito e l’altro di cui non fece in tempo a vedere il compimento. E poi: chissà che l’abbandono del proscenio degli umani sia stato preparato da Bazlen stesso con una scelta meticolosa della sceneggiatura e dei simboli posti sull’altare in cui si sarebbe celebrato il mistero della sua morte.

Costantemente in fuga

Bobi Bazlen, prima di morire, aveva visto solamente, scriverà Calasso, «la copia finita del numero uno della Biblioteca, L’altra parte di Alfred Kubin, libro cui teneva molto non solo perché era il più bel Kafka prima di Kafka, ma perché “l’altra parte” era il luogo stesso dove Adelphi si sarebbe situata». Aveva invece perso la pubblicazione dell’edizione critica di Nietzsche, diventata il pilastro della casa editrice.

Roberto Calasso ha scelto il 28 luglio – sembra quasi, per rispetto verso l’amico e maestro, aver voluto attendere il giorno successivo alla data della sua morte, avvenuta cinquantasei anni prima – per consegnare all’immortalità il libro di memorie su Bazlen, le cui pagine delineano il vorace desiderio di Calasso di imparare i segreti di quella anima solitaria, che rifuggiva le convenzioni, costantemente in fuga dagli altri e da sé stesso.

Il titolo del libro – con le sue pagine capaci di illuminare la tenebra che ci circonda – è inequivocabile: Bobi. Perché di “Bobi” ce ne sarà sempre soltanto uno. Il 28 luglio ci ha riservato un altro evento, che Elias Canetti – scrittore importante per la Biblioteca di Adelphi – avrebbe definito «inaspettato»: la morte di Roberto Calasso. Evento inaspettato quel giorno, almeno per noi.

Quel giorno sono arrivati a compimento l’«inaspettato» – per Canetti l’unica cosa che «rende felici» – unito alla catarsi: Calasso consegna, indissolubilmente, l’amato Bobi e sé stesso all’immortalità che unirà per sempre due amici che per un tempo maledettamente troppo breve ma colmo di energia, idee e progetti, hanno condiviso la più grande avventura della vita. Non possiamo rifuggire dal quesito più affascinante e inquietante: davvero il 27 e il 28 luglio sono accaduti due eventi “inaspettati”, o invece in entrambi i giorni si è concretizzata la sintesi tra destino, fato, e forse le volontà finali di due talenti così diversi e così complementari?

Le Nuove edizioni Ivrea

Roberto Bazlen nasce a Trieste il 10 giugno 1902. Il padre, tedesco e di fede luterana, muore l’anno successivo; il piccolo cresce nella famiglia ebraica della madre, composta prevalentemente da donne.

Ben presto Trieste si rivela opprimente per un giovane irrequieto, con problemi anche caratteriali e appassionato della letteratura internazionale. Iniziano le peregrinazioni, ma per un giovane intellettuale alla ricerca di nuove sfide l’unico approdo possibile è Ivrea, dove arriva il 12 febbraio del 1935. Il giovane Bazlen, inseguito dai suoi demoni esistenziali, non può capire il valore terapeutico della fabbrica. Scriverà: «Olivetti padre, in sostituzione dell’analisi che sa che sto facendo, mi ha prescritto molti mesi di lavoro manuale in fabbrica mattina e pomeriggio – perché lui, quand’era giovane e aveva “idee nere”, lavorava da operaio in una fabbrica di Londra». A Bobi non resta che abbandonare Ivrea: ma è soltanto un arrivederci.

Siamo nel 1941. Valerio Ochetto racconta che Adriano Olivetti incontra a Milano, presentandosi come amico di Bazlen, Luciano Foà che ha ventisei anni, e gli propone di organizzare una casa editrice, che si chiamerà Nuove edizioni Ivrea (Nei). L’idea è maturata nell’ingegner Adriano conversando a Roma proprio con Bobi, che aveva lavorato nel mitico ufficio pubblicità Olivetti con sede nel capoluogo lombardo e del quale Adriano subisce il fascino poiché – le parole sono ancora di Ochetto – «personaggio fuori da ogni ruolo fisso, che ama intrecciare e sciogliere nodi di ambigui, un po’ raffinato consigliere del principe, un po’ stregone».

Ben presto a Ivrea si coagula il nucleo di giovani di ingegno venuti da fuori – in prevalenza «ebrei, o “mezzo-ebrei”, come Adriano», osserva Ochetto, che aggiunge: il veterano è Bazlen «già leggendario per gli umori, le suggestioni, i suggerimenti che vengono dalla sua formazione triestino-asburgica». Contribuiranno al progetto anche Cesare Musatti, Giorgio Fuà, Angela Zucconi e tanti altri ancora. Il gruppo di lavoro commissiona lavori ad autori italiani, acquisisce diritti internazionali, soprattutto in settori inesplorati, con il fine di superare le censure del fascismo verso autori americani, inglesi e francesi. La Nei pubblica in piena guerra, solo tre titoli.

I danni del conflitto armato si sono rivelati irreversibili: Adriano è dovuto riparare in Svizzera; il lavoro editoriale è in gran parte disperso. L’esperienza non è però da considerarsi un fallimento: dalle sue ceneri, nel 1946, nasceranno le Edizioni di comunità, destinate a diventare la più importante casa editrice italiana di saggistica, capace di illuminare la cultura provinciale nostrana con i lavori dei maggiori studiosi internazionali di sociologia, filosofia, urbanistica, political science, economia.

La nascita di Adelphi

Bazlen lavora per altre case editrici – persino Einaudi – che però sono troppo convenzionali per un intellettuale che ama sperimentare e che vuole allargare il recinto. Nel 1962 Luciano Foà e Bobi Bazlen decidono di fondare “la” casa editrice che finalmente potrà ispirarsi alle ricerche e alle intuizioni di Bazlen – l’uomo che non ha lasciato, osserva Montale, «nulla che possa intendersi come un’opera», ma che, annota Calasso, non intendeva appiattirsi alla «geografia prestabilita», dotato di un talento un talento ineguagliabile nello scoprire quei libri «che ci piacciono, (principio guida) che la casa editrice non ha mai tradito». I due amici decidono di coinvolgere il ventunenne Calasso, che scrive: «L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi. Bazlen era la persona che sapeva qualche cosa in più, (nonché) la persona più veloce nel vedere il “dettaglio luminoso” (Pond) che abbia avuto la fortuna di incontrare».

Ma si sa: genio e sregolatezza possono scavare la roccia soltanto in presenza di qualcuno capace di incanalare le energie e il talento, di proporre un modello organizzativo, di garantire finanziamenti. Ed è per questo che Foà e Bazlen si rivolgono a Roberto Olivetti che, come ricorda Valeria Riboli in Roberto Bazlen editore nascosto, avrà un ruolo decisivo nel garantire economicamente la nascita della casa editrice – salvo poi recedere di fronte alla cessione, nel 1964, della Olivetti al gruppo di intervento costituito da Fiat, Mediobanca, Pirelli e Centrale.

Bobi è qui

Noi che torniamo a Ivrea con frequenza, appena scesi dal treno cerchiamo Bobi con lo sguardo: lo ritroviamo perennemente trasandato, il cappotto lungo – sempre lo stesso, sempre sdrucito. Anche i gesti si ripetono come se il tempo si fosse fermato. Lo sguardo inquieto e l’aria smarrita di quel dandy raffinato che aveva sempre avuto un tavolo riservato da Babington, dove incontrava, tra i tanti, Ennio Flaiano, Alberto Moravia e Giacomino Debenedetti. Cammina solitario, la testa assorta nei pensieri. Lo seguiamo con lo sguardo mentre si avvicina agli stabilimenti Olivetti, quelli dove è nato il modello moderno dell’industria mondiale, quelli dove lui non aveva voluto lavorare (chissà quante volte se ne sarà pentito!) e che ora sono drammaticamente vuoti.

Bobi arriva in Via Jervis. Alza lo sguardo sulle vetrate della fabbrica, come se stesse cercando qualcuno, qualcosa o solamente un pensiero.

Accomodatosi sulla panchina, copre il volto ed estrae il fazzoletto di lino e asciuga le lacrime. Le stesse lacrime dignitose versate da troppe persone che hanno perso lavoro e futuro.

Ritorneremo presto a Ivrea. Su quella panchina di via Jervis vorremmo imbatterci in Roberto Calasso, intento a ragionare con l’amico Bobi Bazlen, andato via così presto, di nuovi libri unici da aggiungere alla Biblioteca. «Sai, Roberto, in fondo Adelphi è nata in questa piccola città quando in piena guerra io e Foà siamo stati chiamati da Olivetti per creare le Nuove edizioni Ivrea. Quando abbiamo deciso di avviare il nostro progetto abbiamo scelto te, giovanissimo, perché sapevamo che non ci avresti mai tradito».

E nelle parole rivolte da Calasso all’amico geniale – «non mi hai dato il tempo di dirti che non ho mai imparato più che in tua compagnia, durante quei giri improvvisati per Roma» – coglieremo il senso profondo della nostalgia e del dolore.

 

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