- Questa mattina, sulla strada, regna l’orrore. Ines supera una decina di cadaveri impolverati. Uno strano fumo nero esce da non si sa dove
- Spera che l’allarme del pericolo nucleare sia soltanto una minaccia per uomini avvisati e quindi mezzo salvati, che questa quarta guerra mondiale non si curi dello sviluppo tecnologico dell’epoca e si comporti come tutte le altre
- Questo racconto si trova sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola
L’acqua del rubinetto le scorre sulle mani e lei sbadiglia. Lo sguardo allo specchio è distratto, appannato dal dormiveglia. Si fissa gli occhi azzurri e gonfi, le guance appaiono quasi bucate al centro, gli zigomi spigolosi lasciano intravedere il teschio futuro. Si passa un filo di rossetto sulle labbra a cui basta una breve passeggiata per ritornare pallide. È una delle poche ragazze che ha deciso di mantenere intatti i propri lineamenti originali: non può essere considerata bella anche se non è brutta. Come se non bastasse è intelligente. Come se non bastasse ha un disturbo del sonno, e un altro dell’umore. Come se non bastasse soffre di forti infiammazioni alla cervicale. Può bastare per chiedersi dove siano i venticinque anni di Ines sul suo corpo.
Sirene
Non è mattina, le è capitata una delle cose peggiori che possano capitare nella vita: si è addormentata di pomeriggio, appena dopo aver finito di leggere l’ultimo romanzo, bellissimo, di X6Delta, e si è risvegliata da poco, alle sette e quarantadue di sera.
Il sensore sta emettendo i bip che indicano gli ultimi secondi d’acqua disponibili. Si lava i denti velocemente, batte le mani due volte per spegnere i led dell’appartamento. Chiude la porta digitando sul key-bracelet la password Caio3000, nome e data di nascita di suo fratello.
La neve sintetica attutisce il passaggio già di per sé silenzioso delle macchine e degli autobus elettrici. Le luci dei lampioni sono accese perché captano i movimenti delle persone che sembrano sfilare come in una specie di processione. Il talento audiovisivo degli alberi, con le loro fronde perennemente verdi e scosse da un vento mite programmato, significa che questo è il migliore dei mondi possibili. Tutto sembra seguire un ordine preciso, imposto dall’alto da un Dio di silicio che vola su una cabina depressurizzata o più semplicemente come se ci fosse qualcuno a coordinare il traffico; non un poliziotto, ma un ragazzo del cinema passato, nascosto all’inizio o alla fine della strada, con un antico cappellino da baseball, la giacca pesante, gli auricolari e la radiolina.
Un uomo sta esalando i suoi respiri conclusivi, steso sul marciapiede. Sul suo volto bianco e felice d’essere infelice solo per qualche altro istante concesso, rimbalzano i flash dello schermo sopra di lui, dove appaiono in successione le homepage dei siti d’acquisti. Nessuno gli fa da ombra, forse è stato colpito o forse è uno dei tanti suicidi. Una piccola folla si è radunata sul lato opposto della strada, di fronte al muro che questa mattina era stato ripulito e ora recita una nuova frase, scritta a caratteri cubitali, con una vernice rossa: Siamo già scomparsi, fregatene, non avere paura.
È la frangia inafferrabile, chiamata “Paradox”, dei Neet: i numerosi e in aumento giovanissimi inattivi che non collaborano, che non producono ma non importa dal momento che in pochi possono ancora produrre, non consumano e questo importa, che non studiano e non lavorano, che non si muovono eppure si rivoltano contro, che non soffrono e non godono, che non fanno niente o chissà cosa fanno. Di certo, fantasmici e carbonchiosi, sanno eludere le spie presenti sotto le superfici pubbliche.
«Sono teppisti, vanno arrestati. E ai loro genitori andrebbe tolto il microchip». Qualcuno mormora la sintesi della narrazione comune. E non perché tra loro c’è Caio, Ines non lo penserebbe lo stesso.
Lo strepitio delle sirene invade le strade e fa tremare le finestre costruite perlopiù di specchi che rendono inaccessibile il cosa c’è dentro. Ognuno corre con la propria storiella da proteggere, tra il vociare scalpicciante. Ines riesce a ripararsi nel grattacielo di Meat. Le gira la testa. Si ritrova schiacciata tra i camici degli scienziati e i frigoriferi contenenti cellule animali. L’Update-watch di tutti conferma la fine dei bombardamenti, chi non lavora nel laboratorio di carne coltivata può e deve uscire.
Da sei mesi le speranze obbligatorie sono tornate a delimitare lo spazio aperto delle speranze libere, intime. Per Ines che soffre anche di agorafobia è stato un bene. Si è adeguata a sperare che l’allarme del pericolo nucleare sia soltanto una minaccia per uomini avvisati e quindi mezzo salvati, che questa quarta guerra mondiale non si curi dello sviluppo tecnologico dell’epoca in cui viene combattuta, che si comporti come tutte le altre, in modo sporco e tremendo, con attimi romantici, lasciando a chi sopravvive la possibilità d’invecchiare come un tempo erano solite invecchiare le persone: con tutto un passato davanti e un futuro alle spalle, ingiallendo come un cielo o i denti dopo il caffè, facendo dondolare sulle gambe nipotini più fortunati, con gli occhi dolorosi di chi ha saputo che la Storia è una tragedia e procede per scandali, tensioni, follie…che questa quarta grande guerra faccia il lavoro più antico del mondo, che sia pure una puttana, ma senza l’ambizione di essere l’ultima.
Nft e rosette
Alla cassa della psico-farmacia, preme le sue impronte digitali sul Touch ID per pagare le ostie di nicotina di cui ha bisogno. Per strada ne ingoia tre, il suo battito cardiaco aumenta insieme al nervosismo e alla pressione sanguigna, eppure si sente molto meglio. Può entrare nell’attico di Greta e fingere di volerle ancora bene come quando erano bambine.
«Io e Federigo stiamo cercando di raggiungere il Rosso, ma lui si sta anche mobilitando per scavare un bunker, non posso dirti dove, al momento il progetto è secretato. E se te lo stai chiedendo, certo che sei invitata».
Greta sorride, si aspetta un grazie che non ha alcuna intenzione di essere esclamato mentre versa stille tranquillanti in un bicchiere di cristallo pieno di limoncello ormai introvabile. Gli occhi avidi sognano Marte, la nuova America, niente di nuovo: lì la guerra non c’è ma la si fa per vincerla. Gli stessi occhi se si perdono sono disposti ad accontentarsi del buio di un nascondiglio sotterraneo.
«Non me lo stavo chiedendo».
«Sono incinta, per questo ho più paura di te».
Ines torna a fare caso ai rumori dei sensori elettronici che connettono la camera di sviluppo al controllo computerizzato. E per un attimo le sembra che le manchi l’aria quando si ricorda del sistema di ossigenazione che aspira l’ossigeno nell’atmosfera per darlo al liquido di alimentazione che serve al bambino. Osserva l’utero artificiale al centro dell’ampio salone. Dentro la palla di vetro, il feto dorme sereno, fluttuando.
«Non vedo l’ora di partorire».
«Ti farà male?».
Greta fa una risatina insopportabile, si tocca la pancia vuota quanto la testa, secondo Ines.
«Non ha senso, lo so, ma ho come l’ansia di soffrire per il parto».
Il pulsante è lì, a pochi metri, e se ora Ines lo premesse il bambino morirebbe. Ma non ce l’ha con lui, ce l’ha con lei che vuole essere ringraziata e si alza e le regala una maschera anti gas.
«Come si dice?».
«Grazie».
«Federigo è un genio, è rarissimo riuscire a procurarsele. C’è una storiona assurda dietro che purtroppo non posso raccontarti».
«Cos’altro avete che gli altri non hanno?».
«Abbiamo prelevato tutto il prelevabile, dì a tuo padre di fare lo stesso, diglielo immediatamente, tra domani e dopodomani il sistema bancario andrà in tilt. Scordati le impronte digitali, Federigo l’ha detto subito: il mondo non è più liquido. Abbiamo armi, oro, molto oro, e ioduro di…».
«Di potassio». Federigo è entrato in salone, accarezza l’utero. I vestiti che indossa non sembrano i suoi, ogni giorno suo figlio s’ingrossa e lui dimagrisce.
«Ines, non sono positivo. Le nazioni potrebbero finire con il contendersi a colpi di nucleare tattico le ultime risorse che rimarranno sulla terra. Ma nel frattempo se tu hai dieci coin per due rosette di pane, io ne offro cinquanta e le rosette me le mangio io. Sarà tutto battuto all’asta, anche il pane».
Sembra lo sventurato animaletto di un esperimento a cui hanno deciso di impiantare la parte della coscienza umana che conosce la natura provvisoria della vita, rovinandogli la vita. Ha ereditato la proprietà di dieci tra i negozi d’abbigliamento online più remunerativi, e ora colleziona rosette come prima collezionava Nft perché scopre di poter morire. Il dibattito pubblico che negli ultimi anni si era mostrato ottimista circa il superamento della mortalità, come d’ogni altro ostacolo, ormai è quello che è: un falso mito, feroce e cinico, senza futuro.
Ines li saluta frettolosamente, lanciando uno sguardo duro sulla loro volontà di vivere che è volontà di potenza sulla morte innanzitutto a discapito degli altri.
A casa
Julia afferra il volto della figlia e lo bacia, la bacia. Ines sente di deluderla già così: per questa faccia sciupata, per quest’anima fiacca, per questa reticenza all’affetto. Ma si sbaglia: Julia la ama e la ammira, e glielo ripete quasi ogni giorno giacché una cosa può escludere l’altra tra genitori e figli, eppure non basta. Ines intuisce che la madre sta tacendo delle preoccupazioni: Che sono queste occhiaie, ti mancano le vitamine e l’energia, piccola mia, quando hai perso la spensieratezza?
Se solo si potesse risalire a un unico orario, se solo ci fosse un unico orario in cui una persona cresce e in pochi attimi viene uccisa da qualcun altro o da un evento, e poi continua a vivere, ma dentro è a pezzi. E solo la madre vuole rimettere insieme i pezzi.
Se solo la figlia si confidasse più volentieri, Julia sarebbe pronta a impugnare un forcone e a vendicare l’offesa. Non lascerebbe tracce di nessun corpo del reato, e i corpi morti li chiuderebbe con dovizia da chirurgo in dei sacchi grigi sigillati, spruzzando in giro un buon profumo per l’ambiente. Se solo fosse possibile, Julia farebbe i salti mortali per riportare le lancette indietro e tutto ciò che di sbagliato è successo non succederà.
«Ma cos’è successo?».
«Niente, mamma. Dov’è papà?».
«Sta facendo lezione, vallo a sentire. Sai che gli piace quando percepisce che sei in corridoio e lo ascolti».
Julia torna ai fornelli, non ha mai voluto comprare il Tolky che ormai cucina per tutte le famiglie.
«E Ines, un’altra cosa. Parla un po’ con Caio, sta tutto il giorno in camera con il visore».
«Frequenta i Neet».
«No, ha abbandonato il gruppo. Non te l’ha detto?».
Ines stringe gli occhi come se ci fosse qualcuno ad inquadrarla e dovesse consegnare un’espressione malinconica e pulita, l’ultima espressione prima della fine. Il suo volto ora si rilassa. Sembra leggera come una valigia pesante quando sei arrivato dove volevi arrivare e con gioia raggiungi l’uscita della stazione.
Avvicina le orecchie alla porta dello studio del padre. Nonostante i tagli del personale a favore dei robot, le poche ore che gli sono state garantite in remoto Dario continua ad affrontarle con passione e disciplina, ad attraversale come un viaggio sempre imprevedibile nel passato. Indossa la cravatta migliore, dei bei pantaloni anche se non si vedono, tre gocce di Eau Savage sul collo anche se non si sentono, e si collega, con un sorriso gentile, con la sua testa piena di capelli ancora neri e di cultura, ferma dentro i contorni d’un rettangolino che non lo umilia solo perché lui sa restare sé stesso.
«La guerra somiglia alla fede greca nel divenire: il niente che diventa cosa, la cosa che ritorna niente. Questo terreno, che è comune sia alla filosofia tradizionale che alla critica della filosofia tradizionale, è dove stiamo. Con gli adulti che decidono, interessati ma senza fede, e con i giovani che non fuggono, disinteressati ma con fede».
Il corpo le si contrae e l’angoscia si impone a forma di intestino. Si volta, sulla porta di Caio c’è ancora scritto in penna «Ines non può entrare!». Ricordo di vecchie e stupide tempeste; lo scoppio della guerra li ha riuniti, hanno passato i pomeriggi a parlarne e Caio, insofferente al racconto imposto, ogni giorno se ne usciva fuori con una notizia riservata filtrata dal rare web. Ines non bussa, gli sfodera via il visore.
«Che cazzo vuoi?».
«Caio, non ha senso, lo sai, vero? Non ha senso partecipare. Se ti chiamano scappa via. Sei troppo piccolo».
«Se mi chiamano non scappo via. Non sono un codardo».
«Ma non ci pensi a partire, vero?»
«Anche lui ha quindici anni, ascoltalo».
Caio fa partire un filmato in cui un ragazzino, con le gote arrossate dal freddo del nord, impugna un mitra e spiega la sua scelta dal fronte. Dietro di lui, si intravedono soldati seduti a cavalcioni che mangiano e bevono, in una sorta di allegria.
«Questo è una psicopatico».
«Non è uno psicopatico, è un ragazzo della mia età che ha deciso di lottare per la patria, e mette in conto il sacrificio».
«La patria non esiste».
«Tu non esisti, semmai».
«Caio, ascoltami. Perché questo ragazzo che è lì da un giorno fa subito un video esibizionista? Vuole apparire, non è cambiato nulla. È il sistema che contestavi con i tuoi amici fino a ieri, come dicevate, tutti enfatici…sistema basato sul crimine, sul delitto perfetto, quello di cui non si trovano i responsabili, se la politica è subalterna alla finanza, se la politica non esiste più e di chi ci governa non conosciamo le facce, allora è tempo che non si conoscano più nemmeno le facce dei governati!».
«Smettila».
«L’atto eroico è un atto silenzioso, non farti corrompere da questa retorica».
«Lo fa per dire che se c’è qualcun altro disposto a combattere non deve sentirsi solo, non deve sentirsi uno psicopatico».
«No, lo fa per diventare famoso. E purtroppo tornerà in una bara».
«Non è famoso, non se lo fila nessuno. Ha trenta visualizzazioni e sì, come dici tu, rischia di tornare in una bara. Bentornati nel mondo, nel mondo si muore».
«Sembra che ti abbiano messo in bocca parole non tue. Come parli?».
«Ti voglio bene, Ines, ma ora lasciami in pace».
L’orrore
È impossibile dormire. Le vene verdi delle sue mani: più le guarda e più sembra che si stiano protendendo oltre l’involucro della pelle, come radici arrabbiate. Ripensa al bar preferito di Caio, uno dei rarissimi dove ancora c’è una donna: Teresa fa dei tramezzini squisiti e a marzo Caio si abbuffa dei suoi bignè fritti alla crema, sorride estatico e nell’aria non c’è nemmeno un dolore a metà. Ripensa a quando è nato Caio, a quando l’ha preso in braccio per la prima volta e le sembrò d’aver capito l’amore: non lo puoi conquistare se non l’hai già conquistato. E fatemi stare tutta la vita così. Con mio fratello tra le mani. Che v’importa se tutti crescono e noi non cresciamo? Giochiamo l’eccezione che serve alla vostra regola. E poi se vi va, fottetevi. Premesso che c’è un aggredito e che c’è un aggressore, premesso il valore di ogni singola vita umana, premesso che noi siamo angeli e loro demoni. Su questo crinale appianato per non essere fraintesi, fottetevi.
Sta diventando una persona violenta o solo sé stessa? Per smetterla d’incupirsi deve far riposare i pensieri. Mettere in discussione e assoggettare alla critica ogni fenomeno al solo scopo inutile di uscirne più triste, più sola. Da sola si sussurra: Basta, Ines. Fai dormire l’io e sogna libera come liberi vivono i pazzi.
Questa mattina, sulla strada, regna l’orrore. Ines supera una decina di cadaveri impolverati. Uno strano fumo nero esce da non si sa dove e si attacca alle ciglia. Intorno ci sono volti patibolari, braccia che penzolano, ferite che sanguinano e chissà quanto altro sangue passerà sotto i ponti, ma lei sente solo il rumore noioso della tosse degli altri. Capisce di non poter arrivare fino all’appartamento e prendere i vestiti che le servirebbero per ritrasferirsi, come ha deciso, dai suoi genitori. La pioggia comincia a battere, non era aspettata. È la prima volta che una previsione meteo sbaglia. Risponde a Julia che la chiama. La voce di sua madre è sfiatata, confusa, ma esce a raffica.
«Torna!».
«Sto tornando».
«Sono stati bombardati a tappeto tre quartieri, gli allarmi non hanno suonato, e Greta e Federigo…Federigo e Greta e il loro bambino sono morti, sono morti tutti. E Caio, Caio…».
«E Caio?!».
«Caio è partito, non abbiamo potuto fermarlo, è scappato nella notte. Ha falsificato le nostre firme, ma loro lo sanno! Tutti i minorenni stanno partendo così. Caio è un puro, è…».
Ines non riesce a dire una parola. Sente le lacrime di sua madre, e i suoi singhiozzi. Si intona a quel pianto. Sente che anche la sua ostilità per Greta è stata insensata, sente che le vuole bene, davvero, e che sarebbe stata un’ottima madre, simpatica e generosa. Si immobilizza, torna a camminare indietro, e a ogni passo sente scricchiolare il legno sotto di lei, non più l’asfalto, il legno fradicio della barca su cui sta l’intera umanità, attaccata alle spalle dai pirati del futuro.
Un aereo militare attraversa il cielo. Un cane sbruciacchiato ancheggia senza guinzaglio e sparisce dietro l’angolo dove c’era il bar preferito di Caio. Il bar non esiste più perché Caio non ha aspettato marzo.
Maria Castellitto con il suo romanzo di debutto Menodramma, Marsilio, è stato candidata da Serena Vitale al Premio Strega.
© Riproduzione riservata