La serie tv Ripley, tratta dal romanzo di Patricia Highsmith, ripropone un'immagine riduttiva di Caravaggio, che ignora la complessità della sua arte e del suo tempo. Le sue opere, come il teatro di Shakespeare, esplorano temi profondi come la compassione e la condizione umana, troppo spesso vittime di rappresentazioni semplicistiche
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Anche nella nuova serie televisiva Ripley tratta dal romanzo di Patricia Highsmith è ritornato il Caravaggio assassino. Peccato, perché la serie è ben fatta, con una bella fotografia in bianco e nero e dei ritratti di italiani per una volta non caricaturali. Non mi vengono in mente ritratti di inglesi o americani fatti da italiani in questi anni che restituiscano uno sguardo altrettanto rispettoso. Bisogna tornare a Pier Maria Pasinetti per evitare la parodia superficiale, dove si alternano spocchia e servilismo, che caratterizza lo sguardo di chi vede nell’altro lo straniero, non un suo simile.
Ridere dell’altro è il modo più facile di esorcizzare la sua influenza, che è sempre complicata. Il detto che ogni signore è in mutande per il domestico che lo vede dal buco della serratura deve essere letto attraverso il suo inverso, e cioè che chiunque si abbassi e guardi un altro dal buco della serratura non può che essere un domestico, vedere mutande, riflettere il proprio atteggiamento servile.
Nel caso dello sguardo tra angloamericani e italiani le cose sono in gran parte determinate dalla Seconda guerra mondiale: dal paese di Dante e Leonardo siamo diventati per loro il paese del Godfather e dei Sopranos, mafiosi e in generale intellettualmente modesti, nel romanzo e nel cinema, da Coppola a Scorsese a De Lillo o Puzo. Del resto, dai trentuno milioni di emigrati dal 1861 a oggi, di cui la maggior parte prima del 1915, discendono oggi oltre 130 milioni di persone che si ritengono italiane e sono loro il pubblico di questa narrazione mafiosa che noi possiamo trovare sminuente. Sono anche la parte italiana più ricca, e questo distorce ulteriormente lo sguardo angloamericano sull’Italia e quello degli italiani su un mondo che, liberandoci dal fascismo, ci ha assorbito nel suo sistema di valori. Da parte nostra, pochi progressi sono stati fatti dal famoso episodio in cui Totò vende la Fontana di Trevi a un turista.
Quindi onore a Steven Zaillian, il regista della serie Ripley, che nel ritrarre l’Italia del 1961 non si è lasciato tentare da facili riduzioni stereotipate dei personaggi. C’è un mafioso, ma il mascalzone massimo è Thomas Ripley e sia i poliziotti che gli altri vari personaggi, la serie è ambientata quasi interamente in Italia, sono interpretati da bravi attori e non da caratteristi.
Purtroppo inciampa anche Zaillian nel Caravaggio assassino, il pittore maledetto, come del resto era capitato ad altri registi e narratori.
Dei numerosi guai con la legge di Michelangelo Merisi si sono occupate a suo tempo le autorità giudiziarie, forse San Pietro se gli è apparso davanti, ma non è utile anteporre l’assassino alla sua arte. Purtroppo invece è un fatto ricorrente, soprattutto nel mondo anglosassone che ha anche enfatizzato la sua omosessualità quando diverse delle zuffe in cui si trova coinvolto a Roma hanno a che fare con le sue modelle e amanti. Alcuni attribuiscono la dovizia di teste decapitate nei suoi quadri alla condanna che subisce dopo aver ucciso Ranuccio Tomassoni, che poteva essere eseguita da chiunque lo riconoscesse per strada, una specie di fatwa simile a quella che è stata lanciata contro Salman Rushdie. Ma avvolgere l’artista di maledettismo è un po’ come se per presentare una persona parlassimo prima di tutto dei suoi guai con la legge, dalle tasse alle contravvenzioni e via dicendo. Un punto di vista inevitabilmente pettegolo e maldicente, che non aiuta a vedere cosa accadde intorno a lui e quindi nella sua pittura.
Più di Ariosto e se mai come Shakespeare, Caravaggio è al centro della drammatica lacerazione che in Europa avviene nel Sedicesimo e all’inizio del Diciassettesimo secolo. Torno a Ripley di Zaillian perché lo sguardo tra italiani e angloamericani, per quanto distanti o non distanti dalle diverse confessioni religiose, rimane vago e condannato a rimasticare luoghi comuni se non guarda il conflitto morale tra i due mondi. Anche quando gli italiani restano cattolici in Inghilterra o nel mondo angloamericano, diventano eticamente protestanti, legati a un profitto individuale che non ha autorità di alcun tipo oltre la propria fortuna e anzi, come emigranti, spesso si accanisce nella capitalizzazione personale che li oppone alle comunità.
Il conflitto morale
Cosa accade dunque in Caravaggio? Partiamo dalle Sette opere di misericordia, oggi a Napoli, al Pio Monte della Misericordia. Due angeli, con un gesto drammatico, illuminano dal cielo gli atti compiuti dagli umani tra i vicoli di Napoli: nutrire gli affamati, visitare i carcerati, seppellire i morti, vestire i nudi, prendersi cura dei malati, dare ospitalità ai viaggiatori e offrire da bere agli assetati. L’amore, la compassione cristiana si svolge, anzi precipita dal cielo nelle strade, tra i poveri. È lo stesso dramma che si ritrova a San Luigi dei Francesi nella Vocazione di San Matteo o nella Madonna dei pellegrini a Sant’Agostino a Roma, o nella Cena di Emmaus alla National Gallery di Londra e in tante altre tele. Gli umani, tutti gli umani, sono il teatro dell’amore di Dio, uno sguardo divino illumina la vita che altrimenti resta buia, perduta nel commercio di convenienze e prepotenze che è la kasba dei nostri interessi reciproci.
Per quanto interessante sia una discussione sulla tecnica pittorica (il coup de théatre barocco, il chiaroscuro e via dicendo) qui mi interessa il conflitto morale. Il Cinquecento e il Seicento sono ancora ben visibili nelle città italiane: il progressivo isolamento delle aristocrazie che dopo l’epoca comunale ha creato una nuova classe dirigente ha fatto sorgere palazzi che si stagliano ancora oggi nei centri delle nostre città, in contrapposizione al tessuto architettonico popolare che cresceva intorno a loro. Al tempo stesso è proprio l’insistenza del popolo attorno a queste corti che determina lo spirito dell’epoca. Le signorie si nutrono magnificamente non solo in cucina ma nella musica, nella letteratura, nell’arte. Ma ogni palazzo è circondato da una rete di vicoli dove la vita è prepotente, nuda, spinge attorno all’isolamento dei signori per essere vista.
Già nella Vita di Benvenuto Cellini le carezze che l’artista riceve dai committenti, che sono la ragione dei numerosi viaggi e gli procurano il lavoro, sono un mondo separato da quello in cui lui davvero vive. È lì che si viene denunciati, si è esposti a tutte le malefatte. Intorno a un cardinale a Roma si possono raccogliere gruppi di intellettuali, come Giuseppe Pignata, che possono discutere tra loro il quietismo di De Molinos, ma appena salta la protezione del cardinale si è vulnerabili, fuori dalla legge, si può venire arrestati, uccisi dal potere senza alcuna conseguenza.
Eppure, anche in questi personaggi che passando attraverso i diversi ambienti sono il sale dell’epoca, si sente che la condizione dell’artista, proprio in quanto artigiano, è nel popolo. Così anche per chi scrive, e basta leggere le satire di Ariosto per capire come ci si sentiva a scrivere senza essere potenti.
Questo è il mondo di Caravaggio, e in realtà di tutti. Al popolo si appelleranno tutti, dai risorgimentali ottocenteschi ai marxisti e i nazifascisti fino alla Lega di Bossi. Più che una definizione sociale è un’idea di umanità che, non distorta dagli interessi che brulicano intorno al potere, esprimerebbe lo spirito autentico di una tradizione culturale. Ovviamente ricorrente tra i nazionalisti, che anche oggi sono convinti ci sia una qualche sostanza nell’essere italiani, tedeschi, russi e via dicendo in nome della quale si possono far morire in mare, lungo le frontiere o sotto i propri carrarmati quelli che, per qualche ragione, non rientrano in questa idea di popolo.
Cos’è il popolo?
Non è facile dire che cosa effettivamente sia il popolo, ma per Caravaggio l’essenziale, prima dell’aggrumarsi di elementi diversi nell’ideologia patriottica ottocentesca, è chiarissimo, e sono i poveri: sono loro il teatro della teologia. Quello che viene predicato in chiesa, o si svolge tra la gente o semplicemente non è. E in chiesa si dicono nel seicento tantissime cose, perché la vera battaglia della riforma è tra predicatori di convinzioni opposte.
Questa è anche la chiave per leggere molto Shakespeare: la dialettica delle classi sociali che si rispecchiano l’una nell’altra è un motore per vedere l’umano da prospettive diverse, ma le chiavi morali devono essere riconoscibili. Il signore si distingue perché alfabetizzato e istruito moralmente, ma i più alti concetti della filosofia e della teologia, elaborati da artisti e intellettuali intorno a un signore o un cardinale, sono reali e si ritrovano, si possono anzi contare (i sette atti di misericordia) nei vicoli che circondano i palazzi nobiliari, tra assassini e prostitute, barattieri, giocatori d’azzardo.
L’emozione che provocano molte se non tutte le tele di questo grandissimo artista è nel precipitare degli angeli nella vita, della teologia nel demotico, nell’esserci e reificarsi della fede tra gli umani. E questo, bisogna dare atto alla chiesa cattolica, rimane una delle sue vocazioni principali, quella di Bergoglio e Zuppi, del vivere tra e per i poveri, negli atti di misericordia.
Non è naturalmente l’unica anima nella chiesa cattolica, ma certamente è quella che continua ad avere qualcosa di importante da dire anche oggi. L’altra è finita con il barocco.
La foga con cui lavora Caravaggio, l’urgenza di asserire nel caos di un vicolo cosa sia il bene, rimette per strada e ha anche il carattere di una fuga, ma non tanto dai crimini quanto piuttosto da atteggiamenti servili, cortigiani che si saranno inevitabilmente respirati intorno ai suoi mecenati. Il conflitto si sta articolando intorno a una progressiva distinzione tra protestantesimo e cattolicesimo e in Caravaggio c’è un gusto, una passione artistica che significa inseguire la verità nello sceneggiare questi temi altissimi nel teatro della strada, in volti e situazioni.
Anche in Shakespeare questa discussione è vivissima. Pensiamo ai famosi monologhi, dall’Amleto a Misura per misura, dove il tema è proprio la vita, cosa bisogna farne, con lo specchio della morte di fronte. Il tessuto da cui emergevano queste parti teatrali era l’orazione, il sermone religioso, tanto che spariranno dal gusto letterario già con l’illuminismo. Ma dire cosa sia la vita, se sia più nobile affrontare le sfide del destino, armarsi e sconfiggerle, o piuttosto dormire, o se l’età non sia altro che un sonno pomeridiano che sogna vecchiaia e giovinezza, sono argomenti troppo ampi e vasti per il pubblico progressivamente più scettico del secolo successivo. Nelle biografie settecentesche e nel romanzo romantico, come anche nella lirica che gli è contemporanea, queste riflessioni o sono assenti del tutto, o sono ancorate, come in Leopardi, a un io che le contrappone al proprio destino.
Ci è invece del tutto naturale ascoltare il duca di Vienna o re Lear disquisire in termini astratti, metafisici, sulla scena, e doveva evidentemente esserlo anche per il pubblico di Shakespeare, non solo a corte, ma nei teatri, dove si giocava a carte e ci si prostituiva. Tra persecuzioni reciproche, cattolici e protestanti disquisivano sulla natura dell’anima, se Roma fosse mediatrice tra Dio e gli umani, se una mediazione fosse legittima o necessaria o al contrario se la voce di Dio, l’unica a cui si doveva prestare attenzione, fosse il monologo interiore della coscienza. Discussioni così articolate che nell’Inghilterra protestante si arrivano a contare sedici confessioni diverse, dove ognuno diceva la sua su chi era Dio e come ci si doveva comportare per onorarlo, ed è questo il terreno da cui nascono oltre a Shakespeare i capolavori di John Milton, la poesia di William Blake, l’importantissima lettera di John Locke sulla tolleranza su cui si fonderanno gli stati moderni.
Guardare l’umano
Al tempo stesso in Shakespeare prende forma teatrale uno sguardo profondo e carico di compassione su un modello spesso simile alla confessione dei cattolici. Al centro c’è spesso il colpevole, Iago ma anche l’uxoricida Otello, Shylock e Macbeth, Cleopatra, e soprattutto Claudio in Misura per misura, che prima di essere giustiziato chiede al duca travestito da frate, in una vera e propria confessione, se sia meglio vivere o morire. Questi personaggi vengono avvicinati dal pubblico come gli angeli che guardano nei vicoli di Napoli, con la forza della carità, la passione dell’intelligenza. Oltre la politica perché questa è la vita, nelle sue moltissime forme. Uno sguardo appassionato sul peccato che resterà modello di un modo religioso di affrontare la costruzione del personaggio fino al Raskolnikov di Dostoevskij. L’amore cristiano è inquieto, si avvicina al lebbroso e l’adultera, corre rischi, si sporge sul baratro di anime da cui il buon borghese si ritrae.
Da questa capacità di guardare nell’umano sarà proprio il thriller anglosassone a separarci, con l’opposizione tra investigatore (il buono) e il criminale. Eppure ancora oggi, proprio in un thriller investigativo americano come Ripley, i temi in gioco sono sempre gli stessi. La coscienza individuale può avere abbastanza solidità per rispondere del male che compiamo? O al contrario l’individuo e la sua capacità di conoscere, così al centro della filosofia illuminista e in seguito, dai romantici a Freud, sempre più protagonista di ogni sapere, è proprio ciò che non consiste, non si dà alcuna forma? Tanto che Thomas Ripley altro non è che un imitatore? E in fondo, con mode di ogni genere da seguire, nel vestire e nel mangiare, non siamo tutti dei Ripley? Imitatori di noi stessi e di altri, senza un centro d’amore e pietà, di rivolta e perdizione che genera l’umano in un crogiolo molto scomodo e proprio per questo sorretto da angeli. Tolto il conflitto morale che discrimina il bene dal male, l’amore divino che ci precipita in terra, ci apre gli occhi sulla misericordia degli umani, non siamo altro che forme che cercano forme, gusci vuoti che si rimpinzano sperando in una propria importanza ma condannati a misurarsi ogni giorno con la propria insostanzialità. Questo è il dibattito in cui sono ambientate le tragedie di Shakespeare e i quadri di Caravaggio, e la loro è una risposta piena non solo di arte, ma di passione umana per il destino dei propri personaggi.
Naturalmente il regista di Ripley non può rendere conto di sguardi così contrastanti che ognuno di noi ha nell’ammirazione e nella ripulsa del mondo angloamericano. Anche il confronto con l’arte di Caravaggio è impietoso. Certo che uno dei massimi pittori che siano mai esistiti è più eloquente di alcune ore filmate per intrattenerci. Forse era impossibile nello spazio che poteva dedicargli questa serie, ma se mai qualcuno rimettesse le mani su questo materiale e su Caravaggio, sono altre le cose che parlano nei suoi quadri. Di assassini ce n’eran tanti e, ammesso che l’artista fosse uno di questi, non era certo il fatto più interessante della sua arte. Molto più eloquente togliere questi voyerismi e lasciarsi prendere dalla sua arte.
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