La montagna è stata fatale, come una spietata maestra, ai fratelli Mallory: il minore, Trafford, che preferiva il doppio cognome di famiglia, Leigh-Mallory, comandante delle forza aeree alleate durante lo sbarco in Normandia, cinque mesi dopo il D day si schiantò con un piccolo aereo sulle Alpi francesi mentre volava verso Ceylon, sede del suo nuovo comando. Con lui c’erano la moglie e il suo stato maggiore.

George, dal volto intenso e bello, era morto vent’anni prima, sull’Everest, e in questi giorni di inizio giugno ricorre il centenario di quel traguardo mancato. Per Mallory e per il suo compagno Andrew Irvine è dolcemente necessario riesumare un racconto di Hemingway, l’invitto, e, di pari passo, una tradizione britannica che concede gloria e ricordo commossa a chi fallì ma si comportò con valore e decoro: Robert Falcon Scott, secondo ad arrivare al Polo Sud, sconfitto da Roald Amundsen, e morto nella disumana marcia di ritorno, e Ernest Shackleton, imprigionato nei ghiacci del mare di Weddell e capace di salvare tutti gli uomini che l’avevano seguito nel tentativo di attraversare l’Antartide.

Le fotografie del tempo offrono i due sorridenti, in giacca di tweed, maglione di cachemire, calzoni a coste, scarponi di cuoio che dovevano esser scaldati per esser calzati. Erano i protagonisti di un’antica e disinvolta “chanson de geste”. A Mallory mancavano dieci giorni per arrivare a 36 anni, Irvine ne aveva 22. Hanno i volti bruciati dal sole delle alte quote. «La pelle veniva via a pezzi», scriveva a casa Andrew, per tutti Sandy.

Chomolangma, Madre dell’Universo, 8848 metri, forse uno di più all’ultima misurazione: l'Everest in nepalese è donna. Se lo chiamiamo così è per un attacco di piaggeria del governatore Andrew Waugh nei confronti di George Everest, cartografo dell’India Service. Era il 1865 e il Grande Gioco spionistico tra britannici e russi si combatteva anche al confine del cielo dove Shangri-La sembra dietro il primo costone.

Il desiderio imperiale di conquistarla è in una lettera che Lord Curzon, vicerè d’India, inviò al presidente della Royal Geographical Society: «La seconda più alta vetta del mondo, il K2, è quasi interamente in territorio britannico e quella più elevata, l’Everest, si trova in uno stato confinante, il Tibet, con cui siamo in buoni rapporti. Ritengo imperdonabile che noi, scalatori e pionieri dell’universo per eccellenza, non compiamo un tentativo organizzato e scientifico di conquistare entrambe le cime. Le dispiacerebbe interessarsi personalmente della spedizione? Penso che potrebbe essere realizzata con uno sforzo congiunto dell’Alpine Club e della Royal Geographical Society».

Chi era

Mallory era originario del Cheshire, nato in una famiglia colta e religiosa. Raccontava una sorella che sin dalla più tenera età George possedeva la passione dell’arrampicata: a sette anni scalò il tetto della parrocchia di cui il padre era vicario. Studi a Cambridge, frequentando Lytton Strachey e Maynard Keynes, nucleo del gruppo di Bloomsbury, laurea in storia al Magdalene College, servizio in artiglieria, da sottotenente, durante la Grande Guerra: nel 1916 assaggiò gli orrori della battaglia della Somme.

La passione per l’arrampicata lo aveva definitivamente assalito durante una vacanza in Francia: dopo qualche assaggio, ascesa al Monte Bianco. In un paese senza grandi rilievi George cerca e trova “palestre” difficili, impegnative, in Scozia e in Galles. Il Pillar, nel Lake District, porta tuttora il suo nome, la Via di Mallory.

Dopo la guerra, insegna a Charterhouse, un’antica scuola preparatoria per le grandi università, sposa Ruth Turner, dal volto che ricorda i ritratti di Dante Gabriel Rossetti, migliora il suo francese frequentando corsi alla Sorbona. La svolta è nel 1921 quando il desiderio di Lord Curzon viene soddisfatto e una prima spedizione viene organizzata. Lo scopo è esplorativo. L’anno dopo iniziano i tentativi, infruttuosi ma con un successo parziale: George Finch, Geoffrey Bruce e il nepalese Tebjri Bura raggiungono quota 8321 metri, la più alta mai toccata. L’appuntamento è per il 1924.

Maggio passa all’insegna dei tentativi falliti. Sta per arrivare il monsone estivo che porterà abbondanti nevicate e pericolo di valanghe. Ancora un assalto, l’ultimo. Non è chiaro perché Mallory abbia scelto Irvine, il più giovane della spedizione, ottimo canottiere e giocatore di squash, ma alpinista alle prime armi. Forse perché, studente in ingegneria al Merton di Oxford, aveva dimestichezza con i meccanismi ancora primitivi delle bombole ad ossigeno.

Non è neppure accertata l’ora in cui i due partirono nella notte tra il 7 e l’8 giugno: prima dell’alba o a sole appena sorto? Mallory era noto per il suo disordine: «Un uomo formidabile – disse di lui uno dei capi della spedizione – ma capace di dimenticare gli scarponi».

L’unica testimonianza attendibile è fornita da Noel Odell, il loro supporto, che vide e filmò due punti in movimento a una quota della parete nord che stimò oltre gli 8600 metri, su una cresta a 240 metri dalla vetta. I venti forti portarono nuvole e i due scomparvero. Arrivarono in cima? «Conoscendo George, arrivarono», disse due mesi dopo un amico, George Winthrop Graham.

La storia diventa un puzzle: pezzi sparsi. Nel 1933 venne ritrovata una piccozza che in molti testimoniarono fosse quella di Irivine: nel 1975 lo scalatore cinese Wang Hong-bao raccontò di aver rinvenuto i resti di uno scalatore: i brandelli degli indumenti potevano risalire agli anni Venti. Wang morì, travolto da una valanga, il giorno dopo il suo racconto.

Nel maggio del 1999, nel corso della angloamericana Research Expedition, organizzata nel 75esimo anniversario, Conrad Anker ritrovò, a quota 8130, il corpo di Mallory: il freddo estremo lo aveva preservato. Quell’immagine finì sulle prime pagine di tutto il mondo. Un esame medico rivelò gravi fratture alle gambe, le conseguenza di una rovinosa caduta per centinaia di metri.

Il ritrovamento del 1999

La conquista

Quasi trent’anni dopo l’Everest venne conquistato. Edmund Hillary era diverso, un neozelandese concreto come il suo aspetto scabro, deciso. Ed allevava api a Tuakau, con suo fratello aveva cominciato ad arrampicare sul Ruapeuh e sull’Oliver, Alpi degli antipodi. «Ero su quelle europee quando mi accettarono in una spedizione britannica». Quella buona, afferrata alla gola dal timore di esser bruciata sul filo di lana: gli svizzeri erano arrivati a 260 metri dal culmine prima di essere respinti dalla tormenta e da quel vento che martella. Con loro, lo sherpa Tenzing Norgay, che sarebbe passato nel gruppo di Hunt e Hillary. Evans e Bourdillon provarono il 26 maggio ma un erogatore di ossigeno non funzionava quando la vetta era a 100 metri. Così Hunt, capospedizione, diede via libera a Ed e a Tenzing.

«Vento, neve e ultima tenda a 8.500 metri: la mattina del 29 maggio gli stivali erano pezzi di ghiaccio: due ore per scaldarli», raccontava. Un muro di roccia alto 12 metri – il passaggio di Hillary –, ghiaccio lucente, neve solida: alle 11.30 erano in cima ed era una giornata bellissima, con una luce assoluta. Ed fotografò Norgay che non ricambiò: quella macchina gli sembrava una diavoleria. Lassù per quindici minuti, per piantare bandiere, fissare una piccola croce, lasciar cioccolata come offerta alla dea della montagna, cercare un segno del successo di Mallory e di Irvine: non lo trovarono.

«Abbiamo sistemato il bastardo», confessò di aver detto Ed scendendo verso il campo base: i kiwi sanno essere bruschi. Quando Tenzing raggiunse gli antenati – era l’86 -, venne il momento della rivelazione: il primo piede a posarsi lassù era stato di Hillary.

Quel giorno la dea della montagna non materializzò gli spettri sorridenti di George e di Sandy, scomparsi in quel paradiso perduto.

© Riproduzione riservata