Il libro di Adriano Sofri su fatti del 1996, guerra nel Caucaso e sequestro di tre italiani arriva con più di 25 anni di ritardo. Prima non era possibile per non mettere in pericolo qualcuno dei personaggi coinvolti. Ora necessario perché c’è l’Ucraina con le sue analogie.
Nel risvolto di copertina c’è una nota dell’autore. «Questo diario di una straordinaria vicenda di guerra, di distruzione e di liberazione, non è stato pubblicato per più di venticinque anni, per una ragione: la paura di mettere in pericolo qualcuna o qualcuno dei personaggi coinvolti in quella parte di mondo. Viene pubblicato a distanza di più di venticinque anni per una ragione: c’è la guerra in Ucraina».
L’autore è Adriano Sofri, il libro si intitola C’era la guerra in Cecenia (Sellerio, 218 pagine, 15 euro), un omaggio a una frase nella prima pagina di Tolstoj, «Allora nel Caucaso c’era la guerra». Ci sono spesso le guerre nel Caucaso. Anche altrove, ora se ne è aggiunta una in Medioriente e a tutte le latitudini i comportamenti degli umani si assomigliano, cambiano solo gli scenari, il panorama. Ad accostare ancor di più la guerra di Cecenia ad alcune seguenti c’è l’armata russa, allora di Eltsin poi di Putin, in Georgia, in Crimea, in Siria, ora in Ucraina. E ad aggiungere il carico la compagnia militare pseudo-privata Wagner del fu Evgenij Prigožin, in Africa soprattutto.
Amici e nemici
Adriano Sofri nel 1996 è reduce dall’assedio di Sarajevo, la Bosnia che diventerà il metro di paragone della sua nuova avventura in una terra ancora più infida.
Cerca una guida, la trova in un personaggio dall’anagrafe altisonante, la principessa abkhaza Ziala Cicibaia, e già la premessa è romanzesca, allude a mondi lontani, immaginari. Annota su un diario che diventerà via via più fitto di preziosi dettagli le difficoltà di recuperare un visto nella Mosca da poco post-sovietica finché rompe gli indugi e opta per un viaggio semi clandestino.
Precipita in un posto che «appartiene a uno o due secoli fa salvo che gli hanno insegnato a usare le armi più nuove». Grozny, la capitale, è un cumulo di macerie ma con il mercato affollato, il fango ovunque, i soldati per ogni dove, e la colonna sonora sono gli spari. Sofri passa dalla città ai villaggi «distrutti spaventosamente come se fossero stati schiacciati da un maglio bestiale», le donne a cucinare a ritmo continuo gli uomini a conversare, straniero sempre desiderato, scopre alleanze e inimicizie di quel piccolo popolo sventurato, i modi di dire: «Se ti cerchi un nemico vieni in Cecenia. Anche se ti cerchi un vero amico».
Disvela negli articoli su L’Espresso e nei reportage per il programma Mixer quelle che oggi definiremmo fake news, frutto della propaganda russa che descrive i ceceni come mafiosi, lestofanti, briganti. Vladimir Putin più tardi definirà “operazione di polizia” il secondo conflitto contro di loro quando promise di stanarli fin dentro i cessi: una passione per gli eufemismi se poi chiamerà “operazione militare speciale” quella d’Ucraina. Tutto si tiene.
Intrecciare relazioni
L’autore intreccia quelle relazioni profonde e solidali che in battibaleno si consolidano come solo nelle situazioni estreme. Loro sono ghiotti di notizie dell’Italia e lui viceversa. Conosce la fierezza, il significato antico della parola d’onore, il senso dell’ospitalità insegnato fin da quando si è bambini. È rapito dalla struggente bellezza del paesaggio di montagna, la luce, il freddo, le albe e i tramonti, le aquile maestose nel cielo.
Ascolta i discorsi delle principesse come le vanterie esagerate dei guerriglieri, tra pranzi e cene pantagruelici a cui è impossibile dire di no perché suonerebbe come uno sgarbo. «La cosa più notevole di queste persone dopo l’ospitalità e in un certo senso a suo complemento, è l’ingenuità. Sono senza sospetto e, per quello che intuisco, lo disprezzano. Si vergognerebbero di non essere franchi per prudenza: quando si pone il problema di come raccontare le cose senza comprometterli, quasi si offendono».
Filma due disertori russi. «Ci dicevano che saremmo andati a combattere per una causa giusta contro dei banditi venuti dai paesi baltici, che andavamo a difendere la Russia». Basta sostituire la parola “banditi” con la parola “nazisti” ed ecco l’Ucraina. I russi al fronte, carne da macello, ignari del contorno che la sera proverbialmente si ubriacano e sparano a casaccio, anche contro i commilitoni.
Nella percezione cecena: «Da noi c’è la vendetta, ma là (in Russia) si uccidono tra padri e figli, mogli e mariti, e poi seviziano i cadaveri. Noi uccidiamo per vendetta, ma non manchiamo mai di rispetto ai nemici, né facciamo cose così macabre... Per non prendersi cura degli anziani li uccidono e li buttano da parte, da noi non è concepibile nemmeno in un incubo. La società che protegge i vecchie e cura i bambini ha il futuro dalla sua».
Tenere il filo
A fine febbraio del 1996 Adriano Sofri tornò in Italia immaginando conclusa la sua esperienza in quel tragico e affascinante mondo antico. Il destino decise diversamente, lo costrinse a un’appendice autunnale del viaggio dell’inverno precedente. Tre volontari di Intersos, Augusto Lombardi, Giuseppe Valenti e Sandro Pocaterra, erano stati rapiti in Cecenia. I famigliari gli chiesero di occuparsene. Non aveva alcuna fiducia «di poter venire a capo di una simile avventura». Sua nipote, Francesca, gli fece capire che si aspettava che partisse.
Non la volle deludere, persuaso anche che né il ministero degli Esteri né i servizi segreti con i loro legami a Mosca nulla potessero nell’intricato groviglio caucasico. E qui comincia una cronaca dall’interno, di un protagonista, di una ricerca difficile e perigliosa. I dubbi, lo sconforto, la speranza, i nervosismi, le mosse, anche i dissidi, i raggiri, i finti mediatori, gli intermediari veri.
Nei lunghi momenti d’attesa di ogni sequestro ancora storie. Come quella del soldato russo ucciso che aveva addosso una lettera della madre: «Figlio mio la roba che ci hai spedito l’abbiamo ricevuta, tappeti non prenderne più, prendi l’oro, i dollari, i gioielli, prendi queste cose, delle altre ne abbiamo a sufficienza». In Ucraina scambi di questo tenore avvengono con i telefoni cellulari, cambiano le modalità perché la tecnologia ha fatto progressi, non la sostanza.
Poi l’incontro con Shamil Basaev, leader dell’insurrezione antirussa, più avanti “compromesso” in clamorose azioni di terrorismo, il teatro Dubrovka, la scuola di Beslan, ma all’epoca eroe della resistenza.
I tre italiani furono liberati grazie anche ai buoni uffici di Salaudi, un buon amico di Adriano Sofri. Il quale, tanto tempo dopo, è partito per Odessa e dintorni. Ucraina. Per continuare a tenere il filo con chi riceve le bombe in testa.
C’era la guerra in Cecenia (Sellerio 2023) è un libro di Adriano Sofri
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