Lui aveva il cognome che sembrava la vecchia parola di uno strumento cherokee, adatto per fare la guerra. Non ero io inadeguata ma lui. E non sono mai stata così nera come la protagonista del libro che gli ho ispirato
Era uno che andava a cercare e a rompere dei vincoli, già presagivo il futuro in cui mi avrebbe abbracciata a letto alle quattro del mattino con il sacco di infelicità umida che si portava dentro al petto.
Già sapevo che ci si lascia così, non con odio, non con amore, ma con una spiritata stanchezza. Jack Kerouac era una camera a gas di buone intenzioni, sia benedetta Lowell, sia benedetta pure la ragazza che ero quel giorno.
Un giorno avrei scoperto che si vergognava un po’ che fossi nera, eppure quella prima sera siamo rimasti a chiacchierare e invece di sentirmi inadeguata, ho pensato a quanto fosse inadeguato lui.
Durante la guerra guardavo le femmine attorno a me; mi piacevano le operaie, le modelle e le puttane. Queste femmine andavano e venivano dalle fabbriche, apparivano sulle riviste, occupavano le strade e poi sparivano nei sotterranei; erano ovunque, uno sciame di ragazze riflesse nelle vetrine con le labbra scure e i fermagli tra i capelli, erano come le anguille o tante piccole vipere attorcigliate dentro alle carrozze delle metropolitane, si rovesciavano fuori come un’acqua nera e luminosa, cantavano certe canzoni tristi alla radio e riempivano New York di lampi e desideri.
Nei giorni di festa tiravano fuori piccole frecce da guerriere e si abbattevano sui loro bersagli, precise e marziali in ogni avanzare. Da qualsiasi paesino fossero partite, ormai erano arrivate, e la città non esisteva più senza di loro. Le sentivo dentro di me come una nuova frontiera. Le guardavo, e pensavo a chi sarei diventata io. Quelle femmine lavoravano, posavano, scopavano; puzzavano di fiori secchi e di una vita segreta al mare.
Da bambine senza fantasia giocavamo a riparare i morti, fingevamo che i maschi fossero tornati dalla Germania o da Pearl Harbor e li bendavamo fino a immobilizzarli. Io prendevo qualche vicino di casa e lo trasformavo in una mummia, lo bloccavo sull’asfalto e gli chiedevo nell’orecchio: «Ti ha fatto male la guerra? Dimmi dove ti ha fatto male», e poi lui mi dava un bacio senza saliva e scappava a casa. Mia nonna era una cherokee che non ricordava niente della sua vita da nativa, eppure i bambini dicevano che casa mia era piena di teschi e di candele, e questo alone di stregoneria mi è rimasto riluttante addosso per tutta la vita.
Uno sfasciato
Questo incontro sarà un bruttissimo romanzo, ecco cosa ho pensato mentre guardavo Jack Kerouac che piegava le labbra carnose e violacee lì sulla porta, sempre pronto ad ammorbare qualcuno. Sentivo che stavo per impazzire per un romanzo d’appendice in cui c’erano tutti i soldati razzisti e tormentati della guerra civile, le creole violentate, c’era qualcosa che mi dava alla testa, era come iniettarsi tutta la frociaggine romantica di Whitman e la superbia di una lunghissima piagnucolosa adolescenza americana, colata in un unico, mortificante, erotico spasmo.
Era uno che andava a frignare in tutti i bar e in tutte le chiese e a molestare i tassisti, a cercare e a rompere dei vincoli, già presagivo il futuro in cui mi avrebbe abbracciata a letto alle quattro del mattino con il sacco di infelicità umida che si portava dentro al petto, già vedevo come se ne liberava per ringiovanire di colpo e io assistevo a quella trasformazione pensando che mi avrebbe preso il cuore solo per ridarmelo stregato e disumano. Non ci avevo ancora parlato, ed ero già estenuata.
Già sapevo che ci si lascia così, non con odio, non con amore, ma con una spiritata stanchezza; già intuivo le poesie brutte che avrei scritto in sua compagnia. Jack Kerouac era una camera a gas di buone intenzioni, sia benedetta Lowell, sia benedetta pure la ragazza che ero quel giorno e che presto sarebbe diventata una stregonessa, in parte tristessa, rootless, toothless, come tutte le ragazze che quell’infelice ha amato e toccato.
Be’, dicevo di questa serata finita dritta nelle sue cronache del disgraziato amore. C’era una festa e io ero in cucina vestita tutta di nero come al solito, perché la gente si inquietava quando una nera si conciava in quel modo, e poi era arrivato Allen tutto scomposto e gli avevo sentito dire «Jack, ti presento la ragazza più intelligente che io conosca», e lui aveva perimetrato la stanza per capire con quanti maschi là dentro avevo già scopato. Mi ha chiesto che libro stavo leggendo.
Era uno sfasciato, un vero sfasciato con i pantaloni da contadino e la cintura pesante; aveva la faccia da ragazzo che si vergognava del suo passato in una squadra d’atletica. Voleva dirci quanto era matto e imprevedibile e quanto ci rispettava. Anche se aveva solo dieci anni più di me, ricordo che parlava come un vecchio, ed era pieno di affettazioni, con quel taccuino in cui prendeva appunti e segnava tutte le frasi robo-robo-anti e traba-traba-llanti.
Ogni volta che qualcuno decideva di andare via, insisteva affinché bevesse un altro bicchiere, e diventava molesto in un modo che non ci piaceva, un modo da fascista. A casa nostra ognuno poteva bere e stordirsi e ritirarsi in un angolo, non avevamo bisogno di pagliacci autoritari che ci spiegassero chi eravamo e cosa sentivamo.
New York non è per tutti
Eppure mi è venuta pena. Stavo leggendo le Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lui mi ha detto «Che cos’è questa roba da secchiona, hai letto La scimmia sulla schiena di Burroughs?», e io gli ho risposto che Burroughs me lo mangiavo a colazione, che eravamo amici, e avevo letto le bozze in anteprima, ma non era il mio genere. Si è innervosito.
Io avevo letto le bozze, ma loro lo avevano quasi scritto insieme. Essendo Burroughs una specie di sacerdote di cui tutti quei ragazzini volevano la stima, essendo io una ragazza di cui a Burroughs per fortuna non importava niente, se non nei termini di una nuda e affettuosa amicizia. Ho sempre avuto pena per quelli che ci provavano un po’ troppo a scuola o alle feste, e così l’ho preso per mano e l’ho accompagnato a fumare fuori.
Un giorno avrei scoperto che si vergognava un po’ che fossi nera – si faceva ancora lavare le maglie e le mutande da sua madre –, eppure quella prima sera siamo rimasti a chiacchierare e invece di sentirmi inadeguata, ho pensato a quanto fosse inadeguato lui. Era lui quello fuori posto. Come Allen, era stanco di certe estati assassine. Devo andarmene da New York ha detto un paio di volte e io ho pensato «per favore, non un altro di questi». Dovevano sempre andarsene in California o in India; la realtà è che non ci sapevano stare, New York non era per tutti e lo capivo, forse era più semplice per me che non avevo alcuna tensione verso il fare.
Me ne andavo la mattina a comprare la frutta e a badare ai figli degli altri, a leggere e sbobinare, e quando rientravo e passavo sotto la sua finestra Allen diceva che parevo tornata da tutte le strade: ancora con quella storia. Ma il mio segreto è che mi ero scelta un punto molto piccolo in cui stare, per gravitare lì e lì soltanto. E neanche a innamorarmi o a farmi amare facevo grossi sforzi, ascoltavo. Penso a quegli anni e vedo una lunga processione di maschi dal muso triste davanti alla mia porta che volevano essere ascoltati. E forse Jack è rimasto un po’ più a lungo degli altri perché i drogati veri, quelli con la dipendenza, a letto erano fin troppo gentili, si addormentavano e mi lasciavano lì da sola, e se sparivi non gli facevi neanche male e io un poco di male ne volevo fare. Kerouac era come i maschi dopo la guerra – una malinconica fosforescenza –, era quello che tornava sempre più consumato, traumatizzato e perso, mi sfebbrava addosso la sua nostalgia, mi asfissiava parlando dei suoi voli atterrati male, dei bar della marina mercantile, mi sfiniva con la sua buffa religione, e ce ne siamo andati avanti così per un po’, a scambiarci i pezzi a incastrarci a placcarci a sfamarci. A graffiarci a letto e a sbandare tra i palazzi, sotto le luminarie che dicevano “Gas liquore birra”, che dicevano “Soldi amore fortuna”, e quando uscivamo dai locali gli amici quasi non mi riconoscevano, ma siamo stati soprattutto nella mia stanza a farci gli scherzi sotto le lenzuola grigie e morbide e ci siamo voluti davvero bene e per un po’ siamo diventati invisibili, siamo scomparsi dai pettegolezzi e dalle conversazioni, ma io ho commesso l’oltraggio di annoiarmi in fretta e poi Jack è diventato davvero cattivo, e alla fine su questo amore fatto un po’ male è calato un vento buio, pieno di rabbia, e di tempo sprecato.
Morsi e lividi
Kerouac, un cognome che sembrava uno strumento cherokee buono per fare la guerra, una parola vecchia ma ormai americanizzata, Jack che era un po’ nativo come me o così diceva, che sarebbe marcito su una poltrona in provincia mentre io ero ancora a New York, e ancora mi andavo perdendo felice e straniata tra gli edifici così alti, andando a spiare l’acqua da cui ero arrivata, figlia anche io di una città di mare, pure se non avevo mai fatto le notti al porto, pure se non mi ero mai fatta pagare.
Mai l’ho odiato come quella sera in cui ha detto «leggici una poesia Alene, facci vedere cosa sai fare», e poi io gli ho tirato un bicchiere di vino in faccia e ho sibilato «piantala con queste pagliacciate» e abbiamo iniziato a fare la lotta davanti a tutti e lui diceva «vieni qui gattina, vieni qui gattina» e io l’ho guardato con il piombo dell’odio puro negli occhi miei nerissimi, e quando sei morto sono venuti a piangerti, e io? Chi piangeva me, chi piangeva la ragazza che ero? Io che non ho mai voluto mangiare la carne di una persona, non l’ho voluto prima e non l’ho voluto dopo. I bambini della mia infanzia a Staten Island dicevano che a casa mia facevamo cose cannibali, mia madre io e le mie sorelle, perché eravamo scure e sole, e forse era vero: in un certo senso, era tutto vero. Kerouac andava in giro a dire «ci credi che Alene mi ha morso?» mostrando la guancia ferita. Se io avessi fatto vedere i miei lividi sulle cosce mi avrebbero detto: «Beh che ti aspettavi, era Jack, solo Jack», e povero il cuore mio schiantato. «Che splendido animale che sei Alene», e io ribattevo «davvero è qui tutta la tua fantasia? Fare di una ragazza come me un animale, o una madonna».
Mica il massimo, per la mente migliore e smitragliante della mia gene-gene-generazione. Quando facevamo l’amore mi mordeva in testa, come se fosse un esploratore in una foresta tropicale a cui avevano appena offerto il cranio aperto di una scimmia così da dimostrare la sua virilità, e poi piangeva se non trovava una torta al limone nel frigorifero. Aveva delle bellissime intuizioni, chiamava le piantagioni campi di concentramento a colori pensando di farmi piacere. Io che non conoscevo neanche una canzone scritta in una distesa di cotone. Arrossiva per le sue bestemmie.
Cinque anni dopo quell’incontro in cucina, ha scritto una storia su di me. L’ha pubblicata, ci ha fatto i soldi, ne hanno tratto un film brutto. L’ha ambientata a San Francisco e mi ha fatto diventare la sua scimmietta nera, una schiava americana ma giovane e flessuosa e moderna che distruggeva la vita di un uomo bianco. Una creatura selvatica, mentre io ero elegante, fatta di stelle fredde, avevo avuto sin dall’infanzia un rigore, per quanto affamato, che era un mistero persino per me stessa.
Non sono mai stata così nera come in quel libro. Aveva combinato la stessa cosa a quella ragazza messicana, Esperanza Tercerero, l’aveva presa e l’aveva chiamata Tristessa, dandole una carne stupida e mostruosa come la mia. Il razzismo di Kerouac era ingenuo. Non che fosse meno feroce o meno letale per questo, ma era davvero ingenuo. Era tutto sensualità e percussioni. Era anche patetico: perché il suo unico desiderio, e il suo unico scopo, era renderci veri. E non c’era niente che mi sembrasse più patetico, a vent’anni, dell’essere vera. Rispetto a lui posso dire che io, Anton e quelli della nostra cerchia stretta eravamo un po’ più cupi, e le nostre allucinazioni erano un po’ più serie, ci vestivamo in maniera più autoritaria, e so che gli facevamo davvero paura come una storia psicologica che veniva dalla Russia; lui era troppo chiassoso e sincero. Andavo alle feste e tutti mi dicevano «chissà come ti sei arrabbiata», e poi quando ho letto il libro ho pensato soltanto che era la vita di un’altra ragazza, che viveva sulla costa californiana, e nessuno avrebbe potuto confonderla davvero con me.
Un funerale anticipato
Jack sapeva stare solo nell’infanzia di un amore. La vita con lui era un funerale anticipato. Non vedevi il morto, magari ti scappava pure da ridere, eppure sapevi che per qualche ragione dovevi sentirti irrimediabilmente triste. Anche se c’era un bel sole sopra la bara, anche se fuori c’era una luce davvero intensa da spossarti di commozione, anche se per qualche istante potevi sentirti in una comunione miracolata e perfetta con il tuo paese, la tua storia, la tua nazione, la persona che amavi, tua madre o persino un bambino o un cane, non dovevi fidarti: c’era sempre un motivo per piangere, e sentire una luce nera che calava sulle cose.
Dopo quel libro non ci siamo più parlati, e ho compreso che non volevo essere famosa, per motivi miei, ed era difficile trovare qualcuno che mi credesse. Quando dicevo che volevo solo un posto piccolo in cui scrivere le mie piccole cose, senza scopi e distrazioni, perché solo in quello mi sentivo magnificata, nessuno mi credeva. Mi ha creduto solo Kerouac, per un attimo. Per un istante era stato lui ad ascoltare me. Mi aveva detto che anche lui era stanco di tutte le città, di tutte le prove di fedeltà imposte dalla gioventù. Gli sarebbe piaciuto ritirarsi nel ventre e chissà, se ci fossimo conosciuti anni dopo, se avesse visto la mia pelle già stanca, se fosse stato già bolso e impresentabile, magari ci saremmo fatti venire un attacco di cuore tutti e due in qualche stato del Sud a fissare il Mississippi.
Una lettera mai spedita
Per dimenticare quella vicenda, sono diventata ancora più silenziosa, ma non riuscivo veramente a liberarmi della ragnatela che mi ero intessuta addosso tra la Eleventh Avenue e A. Anton era scomparso. Allen era smarrito in qualche comune di nuova invenzione. Burroughs era riuscito a diventare un prete e non un cadavere, ma gli altri morivano fatti a pezzi, e per la prima volta ho pensato seriamente di andarmene da New York. C’era uno di loro, uno scrittore che era rimasto più ferito degli altri e si era fatto degli anni di prigione: negli anni Sessanta ho vissuto con Lucien Carr, che ormai si occupava di cronaca, e passavamo le giornate ad accogliere in casa i vecchi amici, spettri sbandati. Ci sono ragioni imperscrutabili per cui finiamo con una persona. Il tempo, penso. Una volta ho scritto una lettera a Kerouac ma non gliel’ho mai spedita. Faceva così: «Ciao bambino – lo chiamavo così anche se non ero italiana, lo sentivo dire alle vicine –, ho mangiato un ovetto e ti ho pensato. Vivi ancora a casa di tua madre? Hai smesso di viaggiare? Io sono ancora nello stesso punto di sempre. Va bene così. Se vuoi, dimmi dove ti ha fatto male».
La mia vita si basava sui momenti, la sua sulle direzioni. Io avevo un modo mio di esplorare tutto nello stesso istante, lui non era felice se non imparava un po’ di geografia. Gli importava un po’ troppo delle frontiere, delle strade. A poco più di vent’anni ho incontrato un romanziere sfasciato che mi ha ricordato le mie femmine preferite da ragazzina: Jack Kerouac era una modella, un’operaia, una puttana. Andava e tornava, guerreggiante e serpentoso, si rovesciava come un’acqua nera, ho amato in lui quella prima memoria, di una vita e della città, di quel che di sepolcrale e malinconico e indimenticabile c’era sotto l’America. Aveva avuto molte amanti, ma si somigliavano tutte: ogni uomo vuole un’orfanella, una piccola fiammiferaia, una samaritana. Viveva in una patria immaginata tra Messico, Italia e Big Sur. Il re di ogni tavola calda, la spia di tutte le Chinatown. Per lui eravamo tutte vogliose e senza radici, eravamo sempre irlandesi, nere o messicane, sempre etniche, insopportabilmente vere, insopportabilmente posticce...
«Una poesia di Baudelaire non vale il suo dolore», dice la ragazza che sta al mio posto in quel libro. Vale anche per me. Ho capito che i tempi erano cambiati quando andavamo alle feste e tutti mi dicevano «e tu cosa fai, Alene?».
Per me, come per molte ragazzine arrivate da chissà dove, dalla terra, dall’aria e dall’acqua, fare non significava esserci. Anzi: più facevi, e meno c’eri. Tra me e i miei amici era sempre stato così. Ogni tanto qualcuno spariva, o diventava ingestibile, e dicevamo «è uscito fuori di testa, sta fuori, quello è fuori». Io invece ero fuori-uscita: ero uscita dal fuori ed ero tornata nel dentro, da qualche parte.
Sono successe molte cose da quella mattina in cui sono scesa dal ferry che veniva da Staten Island senza tornare indietro. Ho avuto una figlia di cui non dico il padre. Ho tenuto dei diari che non ho fatto leggere a nessuno, eppure ne ho lasciato tracce da tutte le parti, ora che non vivo più in una casa e muoio in ospedale. È venuto Allen a trovarmi. Mi ha abbracciato e mi ha detto: «Sei ancora la ragazza più intelligente che io abbia mai conosciuto e io sento che quell’intelligenza non è andata sprecata: sono riuscita a esistere e vivere tra tutti loro, senza il desiderio di appartenergli».
E ho ancora certe visioni di Alene Lee, che un giorno è arrivata in città perché amava le modelle, le operaie, le puttane ed è sempre stata, credetemi, qualcosa di più, e qualcosa di meno.
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