Darren Cahill, australiano, ex tennista, non è mai stato un top ten. Il miglior ranking dell’allenatore di Jannik Sinner è ventiduesimo al mondo nel 1989. Aveva già capito ciò che l’Italia sta scoprendo in questi giorni
Quando arrivò si parlò di mode passeggere. Il supercoach. Un vezzo dei giocatori affermati e danarosi, come un soprammobile da esporre in panchina durante i match. Il supercoach è l’ex giocatore, possibilmente di successo sennò il prefisso “super” va a farsi benedire, che segue – di sovente in affiancamento, lasciando il lavoro sporco e quotidiano al coach primario – il campione per offrire quello spunto in più, derivante dalla sua esperienza pregressa sul campo, utile all’atleta per confrontarsi con chi ha già affrontato e superato certe asperità della carriera.
In questo, il supercoach di Jannik Sinner vanta caratteristiche peculiari. La prima: non è mai stato un top ten. In realtà, il suo miglior ranking recita numero ventidue al mondo nel 1989. Come è facile intuire dalla cifra riportata, non ha mai disputato una finale in un grande torneo: fu semifinalista, per il vero piuttosto casuale, agli Us Open, e, per il resto, non ottenne mai granché rispetto ai nomi roboanti di altri suoi colleghi di mansione.
Si chiama Darren Cahill, è australiano, e ha già lavorato a fianco di stelle del tennis: Hewitt, Agassi, Murray. Ha accompagnato la rumena Simona Halep a toccare le vette del suo rendimento, prima che costei finisse impantanata in una storiaccia di doping che, in primo grado, si è conclusa con una condanna a quattro anni di sospensione.
Posato ma non passivo
Cahill è un profondo conoscitore del gioco, un tipo posato ma non passivo, un attento analista dei margini di progresso dei fuoriclasse che ha per le mani e, dopo una consultazione che comprendeva altri nomi dalla carriera ben più roboante (il due volte campione di Parigi Sergi Bruguera, il grande Boris Becker e, su toni minori di curriculum, l’ex numero due al mondo Magnus Norman), è stato scelto da Sinner per proseguire il percorso di crescita, dopo un settennio a fianco del coach comasco Riccardo Piatti.
Un altro aspetto che trae in inganno l’occhio meno smaliziato è che un coach dal passato professionistico non deve, per forza, instillare il suo tennis in quello dell’allievo. Anche perché questo sport ha vissuto una profonda trasformazione, e il modo di giocare di un australiano nato negli anni Sessanta – quindi il serve&volley e la predilezione per gli schemi di attacco – non sarebbe più produttivo alle velocità siderali della contemporaneità.
Certo: Goran Ivanisevic, il supercoach di Novak Djokovic – che è rimasto vivo nelle semifinali di Torino grazie alla vittoria di Sinner su Rune – sulla scorta del suo servizio mancino letale ha sicuramente insistito perché il serbo, ormai trentaseienne, lavorasse ancora più e meglio sul colpo di inizio gioco, per garantirsi più punti “facili” e qualche sgambata in meno. Ma il suo schiocco da duecentoventi all’ora, purtroppo, non è ripetibile in serie.
Ottimizzare l’esistente
E Cahill, a fianco del fenomeno italiano dalla scorsa estate, ha una filosofia che poggia sul giusto apporto di elementi propri, che non possono stravolgere le caratteristiche di ciascun giocatore. Parlando con il New York Times, ha spiegato recentemente che «Jannik è un tipo alto e magro, ha una grande apertura alare e può generare molta potenza con i colpi; Agassi è stato un rivoluzionario nel modo di colpire la palla, soprattutto col rovescio, e c’è ancora da imparare da molti giocatori della vecchia generazione».
Proprio il rovescio, da fondocampo, dei due colpi è quello da cui Sinner riesce a estrarre il maggior valore, ma è dal servizio, la cui resa è migliorata vistosamente nel 2023, che l’altoatesino ha ottenuto punti vitali nei momenti di difficoltà, anche nel girone delle Finals torinesi.
Cahill vorrebbe tanto potergli “trasferire” il servizio di John Isner e il gioco di volo di John McEnroe, ma sa bene che la proprietà transitiva non esiste, neanche se i due John si affiancassero come terzo e quarto consulente in campo. Si limita a ottimizzare l’esistente.
I supercoach
Se Boris Becker non avesse avuto un conto da regolare con la giustizia britannica, poi saldato con qualche mese di detenzione per evasione fiscale, forse proprio l’ex trionfatore in sei appuntamenti Slam e numero uno del ranking avrebbe potuto guidare la transizione di Sinner da promessa a fenomeno; non si è fatto sfuggire l’occasione Holger Rune, l’altro ragazzo terribile del tennis, altro sparatore seriale di pallate, che l’ha assoldato per chiudere il gap che per ora lo separa da Carlos Alcaraz (e forse dal campione italiano, almeno a giudicare dai risultati di queste ultime settimane).
Becker è già stato supercoach di Djokovic, ma il primo rappresentante eminente di questa figura è stato Ivan Lendl, pronto ad affiancare il coach “ordinario” di Andy Murray quando lo scozzese – esattamente come era successo, da giocatore, a Ivan il Terribile – perse la quarta finale di fila in uno Slam e cercò, insieme a nuovi stimoli, qualcuno che lo potesse capire per esserci passato. I due sono freschi di terza separazione, proprio in queste settimane.
Rafa Nadal, probabilmente in predicato di disputare la sua ultima stagione da atleta, ha scelto da anni un altro ex slammer, il compaesano Carlos Moya. Carlos Alcaraz è stato svezzato da Juan Carlos Ferrero, ex re di Parigi e pure lui passato per la vetta della classifica.
Sinner non ha contato gli Slam, ma ha scelto l’esperienza e la qualità delle collaborazioni passate: Cahill ha già accompagnato tennisti affermati e in cerca di nuovi stimoli, ora ha un puledro iper ambizioso per le mani, e già sa ciò che l’Italia sta scoprendo in questi giorni. Dev’essere per quel motivo che, spesso, viene sorpreso dalle telecamere con un sogghigno.
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