Cambiano i ministeri, i governi, ma il ruolo di Bertagna all’interno del ministero e nel progetto di riforma della scuola resta cardinale. Nel governo di postfascisti e cattolici conservatori, ora sembra che la sua prospettiva ideologica abbia trovato un’alleanza politica. Il suo progetto prevede una canalizzazione precoce degli studenti in una logica piegata alle esigenze del mercato
Nonostante abbia concluso nel 2022 una lunga e produttiva carriera universitaria, il professor Giuseppe Bertagna è molto più di un pedagogista e teorico dell’educazione. A differenza di tanti suoi colleghi, non si è mai limitato a definire e sviluppare una proposta — astratta e ideale — di ristrutturazione complessiva del sistema scolastico italiano per poi scaricare sulla politica l’onere di una sua eventuale realizzazione.
Al contrario, è sempre stato uomo di pensiero e di azione. La sequenza ininterrotta di incarichi pubblici svolti da Bertagna a partire dagli anni ottanta è una sorta di carriera parallela, altrettanto intensa quanto quella accademica. È stato membro del comitato ristretto della commissione Brocca dal 1988 al 1992, presidente del Gruppo Ristretto di Lavoro della riforma Moratti nella XIV legislatura, membro designato del governo italiano all’Ocse dal 2002 al 2003, direttore scientifico del Cisem dal 2002 al 2004. A cui si aggiungono tante altre attività di consulenza per enti privati e pubblici riguardo il tema della transizione scuola lavoro, dell’alternanza formativa, della formazione professionale e dell’apprendistato. Negli ultimi dieci anni di attività accademica è stato direttore e docente di master e scuole di specializzazione per insegnanti (Sis, Tfa, ecc..) e dirigenti scolastici. Nel 2022, appena pensionato, è stato nominato consigliere del Ministro dell’Istruzione Valditara e, dal luglio del 2023, primo presidente della nuova Scuola di Alta formazione del sistema nazionale pubblico di istruzione.
Per questa ragione le tracce del suo pensiero, fosse anche solo sul piano lessicale, sono presenti in tutti i documenti ministeriali — pedagogici e normativi — degli ultimi 20 anni: lo sviluppo integrale della persona umana come fine ultimo della scuola e del lavoro, la promozione della sussidiarietà verticale, la massima personalizzazione dei percorsi educativi in nome della specificità e unicità di ogni singola persona, la lotta al centralismo statale mediante un drastico trasferimento di poteri dallo Stato a quelle che Bertagna chiama “formazioni sociali” (famiglie, imprese, comunità locali, enti laici e religiosi), l’enfasi sulla non coincidenza tra pubblico e statale (il vecchio ritornello che accomuna cattolici di destra, liberisti, libertari e anarchici), la sempre maggiore partecipazione delle imprese al mondo della formazione e viceversa, la valorizzazione dell’apprendistato e di tutti i percorsi di professionalizzazione precoce, l’infinita cantilena del “saper-fare” da contrapporre alla scuola gentiliana — che sarebbe tutta teoria e niente pratica — ereditata dal fascismo e poi consacrata dal ’68.
Certo, quest’ultima sembra fantastoria, eppure è la tesi esposta da Bertagna nel primo numero del 2023 della rivista Lettera150 diretta proprio da Valditara. Il tutto condito da quel brodo di retorica superficiale ma seduttiva — ormai egemone nel dibattito pubblico sulla scuola — che ha cancellato quel poco di sapere pedagogico complesso e analitico che era penetrato nel senso comune, sostituendolo con un discorso vago e prescrittivo che impiega massicciamente termini antiscientifici quali “merito”, “talenti”, “mestieri”, “artigiani”, “botteghe”.
Nel pensiero di Bertagna convergono e si armonizzano personalismo cristiano, antistatalismo modellato da Luigi Sturzo, corporativismo cattolico e ordoliberalismo austriaco. Secondo il pedagogista l’organizzazione della scuola democratica di massa che si è affermata in Italia, in particolare dal secondo dopoguerra in avanti, è la radice dei problemi attuali della scuola e del mercato del lavoro. Innanzitutto una grande conquista sociale — vale a dire l’autonomia della scuola dalla famiglia, dalla chiesa e dall’impresa — è giudicata negativamente da Bertagna, che si batte da anni per il superamento di quello che lui chiama modello “separatista”. La compenetrazione progressiva tra scuola e impresa, in particolare, è divenuta negli ultimi vent’anni un nodo centrale della sua riflessione pedagogica e della sua azione politica.
Bertagna addebita alla scuola italiana, e alla sinistra soprattutto, la squalificazione del lavoro manuale (concetto molto vago) e della formazione professionale, a cui non è riconosciuta pari dignità rispetto ai percorsi liceali umanistici e scientifici. Secondo lui ogni lavoro, anche il più umile, deve avere pari dignità culturale e sociale. Come sempre non si capisce perché questa pari dignità, per essere davvero tale, non debba realizzarsi anche nella dimensione economica, ossia nei salari.
La visione corporativista di Bertagna — tipica di ampi segmenti del cattolicesimo liberale — tende a ricostruire in chiave romantica l'attività delle antiche corporazioni di mestiere, idealizzate come luogo di superamento del conflitto di interessi tra capitale e lavoro. Infatti il vero avversario di Bertagna non è il ‘68 di cui tanto parla, bensì il ‘69. O meglio, la Cgil. Non in quanto sigla specifica, bensì in quanto portatrice di una proposta politica radicalmente opposta, ossia quella che punta alla creazione di un fronte unico e trasversale del lavoro, che organizzi le persone non in base al mestiere, bensì in base alla posizione che occupano nei rapporti di produzione (la condizione di salariati).
Anche nei suoi interventi recenti riguardo docenti tutor, E-portfolio e formazione insegnanti, troviamo la stessa insistenza riguardo la canalizzazione precoce delle traiettorie professionali e di vita. Bisogna, secondo Bertagna, iniziare il più presto possibile a offrire percorsi di orientamento per la comprensione di sé e delle proprie inclinazioni. Ciascun “fanciullo” (anche nei termini emerge la visione cattolica personalista), contiene già in sé la predisposizione a una qualche attività lavorativa. La scuola deve permettere al soggetto di scoprirla e coltivarla fin dai primi anni di scuola.
È evidente che questo modello non può che partecipare, non può che spingere alla riproduzione delle disuguaglianze sociali. Ciò che viene spacciato per “personalizzazione” altro non è che una strategia che condanna ragazze e ragazzi di tredici anni a compiere una scelta determinante per la loro vita futura. Una scelta solo formalmente libera. Nonostante la diffusa e superficiale retorica dei talenti e dei mestieri — che cerca di spacciare questa canalizzazione sociale precoce per valorizzazione delle singolarità, di mascherare le disuguaglianze da differenze — ancora oggi il margine di scelta è subordinato ai risultati scolastici. Che, come sappiamo bene, a quell’età non possono essere considerati, scientificamente ed eticamente, come risultati del singolo, bensì del contesto in cui vive, della condizione sociale e del background culturale della famiglia d’origine. A 13 anni nessuno “sceglie” in senso proprio. È la società a scegliere. La distribuzione dei singoli entro i vari percorsi è chiaramente un meccanismo di conferma di status, di riproduzione delle disuguaglianze di classe, un destino famigliare.
Bertagna sostiene invece che tale personalizzazione, se condotta di concerto con il mondo delle imprese, dovrebbe condurre anche magicamente a una riduzione del mismatch tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. In realtà la scolarizzazione di massa, quando è stata davvero efficace in termini di elevazione sociale e culturale delle classi subalterne, ha agito come elemento di squilibro nel mercato del lavoro. Se si allargano realmente i margini di scelta e autodeterminazione di un soggetto, difficilmente i profili in uscita dai percorsi scolastici risponderanno alle “esigenze del mercato del lavoro” (altra espressione magica e oscura anche alle imprese stesse, data la rapidità con cui mutano processi produttivi e professioni).
Ma nemmeno la proposta di Bertagna, che è stata recepita dalle riforme degli ultimi anni, favorisce un allineamento della composizione dell’offerta di lavoro con le necessità della domanda. La professionalizzazione precoce oggi conduce solo a una rapida obsolescenza professionale.
La verità è che la visione della società di Bertagna è quella di una comunità operante in cui le classi collaborano armoniosamente nel rispetto delle reciproche qualità e specificità, che promuove “padroni buoni” e “lavoratori buoni” sanzionando quelli “cattivi”. L’esatto opposto della visione socialista e laburista del progresso sociale.
A differenza del suo maestro Luigi Sturzo però Bertagna sembra essere meno in difficoltà nell’interloquire con esponenti e formazioni politiche eredi della tradizione fascista. Anche per questa ragione il suo ruolo nella politica scolastica dell’attuale governo è e sarà tutt’altro che marginale ed estemporaneo.
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