Chiara è abituata a vivere come un’eterna ragazza – un’adolescente. Ma il trasferimento al Quartiere Trieste la trascina verso una nuova realtà, e Chiara, d’un tratto, non riesce più a scrivere, appesantita da un macigno senza nome. Tutto cambia, però, quando incontra un vecchio amico, una persona che non vedeva dagli anni del liceo e con cui comincia a parlare – anzi, a intervistare. Le viene allora un’idea: perché non rintracciare le persone che durante il liceo sono state significative per lei? Perché non rintracciarle per chiedere loro: come te la sei cavata in tutti questi anni?, sei riuscito a non tradire te stesso o il mondo ti ha spezzata?

Gamberale, Dimmi di te, Einaudi Stile libero, è costituito da un intreccio di racconti che, nel corso di lunghe conversazioni – Chiara le chiama interviste e lo sono, per certi versi –, vengono narrati alla sua personaggia dai loro stessi protagonisti.

Mi sembrava narrativamente interessante. L’idea di mettere tutte queste voci in un impianto romanzesco mi piaceva, era una sfida che non avevo ancora affrontato e io quando scrivo sento sempre il bisogno di provare, sperimentare.

Com’è questa idea?

Una notte ho sognato il primo dei personaggi – così, dal nulla. Era stato mio compagno di teatro, non lo vedevo da tantissimi anni. All’epoca lui aveva diciannove anni e io sedici. Una distanza enorme per quell’età, e una differenza che faceva sì che in qualche modo mi sentissi attratta da lui. Insomma, ecco una notte lo sogno ma il giorno dopo mi rendo conto di non ricordare il suo cognome.

Quindi i suoi personaggi sono ispirati a persone reali?

Sì, ma non tutti hanno una corrispondenza diretta. Alcuni sono una sorta di miscuglio di diverse persone.

Torniamo al suo vecchio amico. Voleva mettersi in contatto con lui?

Sì, e l’ho fatto. Il quartiere in cui siamo cresciuti è un posto piccolo e in cui si conoscono praticamente tutti, un posto tra Garbatella e l’Eur dove, da ragazzina, ho passato molto del mio tempo. Non è stato difficile: l’ho chiesto al parroco della zona.

Una volta trovato il suo amico dell’adolescenza?

Mi sono messa in ascolto, ed è nato il romanzo.

Questo libro è su ciò che resta dopo, ciò che ci rimane dopo la caduta delle illusioni, la fine dei miti. Le chiedo, dunque: cosa resta?

Restiamo noi. Restiamo noi, ma veniamo fuori da quel che ci è capitato, dallo strappo, dalla rottura, dalla fine, dall’abbandono, modificati in una parte di noi stessi molto profonda. Restiamo noi, quindi, con l’aggiunta di una nuova consapevolezza.

Nuove versioni di noi stessi?

Se vuol metterla così, sì.

Le ho chiesto della fine dei miti perché, in effetti, Chiara va in cerca dei vecchi compagni di scuola che hanno avuto un ruolo particolare nella sua vita, e tra questi ce ne sono alcuni che Chiara da ragazzina mitizzava.

Certo. La bella della scuola, ad esempio. L’ho vista di recente tra l’altro, ed è stato un incontro stupendo e interessante. È venuta a una delle mie presentazioni, alla fine dell’incontro mi si è avvicinata, chiedendomi di autografare alcune copie e dicendomi che non sapeva pensassi di lei ciò che avevo scritto, che le sembrava assurdo perché lei non si sentiva di certo così bella.

Dipende tutto dal nostro sguardo, insomma.

Sì, esatto. Siamo noi, spesso, a crearli, i nostri miti.

Abbiamo usato la parola abbandono, poco sopra.

Non ne ho avuto molto.

Parliamo di quello che ha avuto, allora.

Parliamo dei legami, piuttosto.

Parliamo di legami.

Sono affezionata al mio primo grande amore, Emanuele Trevi. Ancora oggi, nonostante tutto, siamo tanto uniti. Pensi, è il padrino di mia figlia, Vita. Abbiamo un legame fortissimo, davvero speciale. Io ed Emanuele non ci siamo propriamente abbandonati – per tornare alla sua domanda. Però credo che quel che abbiamo oggi, questo nostro rapporto che è, ad ogni modo, il risultato di una separazione, sia utile a risponderle. Ecco: pure quando una relazione si interrompe, sia che veniamo abbandonati sia che ad abbandonare siamo noi, rimane, da qualche parte nelle nostre profondità, un pezzetto di quel che abbiamo vissuto con l’altro. Questo, dunque, posso dirle sull’abbandono: non è mai assoluto.

C’è un personaggio, dei suoi, che mi ha particolarmente colpito, che mi ha fatto male: Ivan. Lui abita un’esistenza fasulla, una vita come tante, certo, ma non gli appartiene e a cui lui non appartiene: abita un falso sé. Perché?

Perché le ha fatto male, Ivan?

Perché ho avuto la sensazione che se soltanto avessi messo un piede poco più in là lungo il mio percorso avrei potuto vivere una vita del tutto simile alla sua.

Ha rischiato di trovarsi in una situazione come quella di Ivan? Perché?

Le domande qui dovrei farle io, però. Chiara, nel romanzo, dice ai suoi vecchi amici che non si fanno domande all’intervistatrice.

Mi perdoni. Curiosità, e deformazione professionale.

Ho rischiato di trovarmi in una situazione come la sua, come quella di Ivan, perché pezzi della mia vita sono stati tanto dolorosi e pezzi di me tanto difficili da accettare che spesso da ragazzo mi sono detto okay, teatro.

Capisco ciò che vuole dire, ma io non ho mai provato niente del genere, e Chiara nel romanzo sente le mie stesse difficoltà a comprendere Ivan. Di recente, però, mi sono confrontata sul tema con Matteo Lancini, uno psicoterapeuta, che ha detto una cosa che mi ha molto colpita. Ha detto che lui non sarebbe così severo con Ivan. Lui crede che oggi qualunque cosa l’essere umano faccia per non impazzire sia santa. Insomma, se la realtà è troppo dolorosa, come diceva lei stesso, recitare, vivere un falso sé, abitare un’esistenza che non ci appartiene può essere l’unica maniera per non impazzire.

Non c’è niente che la accomuni a Ivan?

L’impulso autodistruttivo. Quello lo conosco bene.

A tal proposito. Le parti di sé stessa che è fiera di aver affrontato e quelle che invece crede di dover ancora affrontare?

Di parti di me ne ho sistemate tante e la scrittura in questo e mi ha molto aiutata. Ho lavorato parecchio. Su cosa? Non lo so. Forse sulla paura.

La paura di?

Soprattutto di perdere le persone che amo.

Delle parti di sé che deve affrontare?

Non riesco ancora a lasciarmi andare completamente a chi ho di fronte. E questa è una delle ragioni per cui non ho mai avuto un amore buono. Ho avuto grandi relazioni, chiaro. Con Emanuele ho avuto qualcosa di grandissimo, però mi chiedo se sarò mai capace di avere un amore che non necessiti del contrasto.

Con Trevi non andò così?

Io ed Emanuele siamo stati più fratello e sorella che moglie e marito. Il punto è che entrambi abbiamo bisogno dell’altro ma ne abbiamo paura, e questo non ci fa aprire completamente a chi abbiamo di fronte.

Dunque cos’è stato?

Ritrovarsi, risarcirsi di famiglie che ci hanno dato poca comprensione.

Chiara nel romanzo è sia madre – di Bambina si prende molta cura, e con lei ha un rapporto meraviglioso – sia anche figlia – il padre, in una scena, le dice che dovrebbe guardare di più i tiggì, informarsi: la rimprovera. Ma sembra sia più a suo agio nel ruolo di madre che di figlia. Lei, Gamberale?

Secondo me nasciamo o con la predisposizione a essere figli o a essere genitori. È una sorta di tratto distintivo, come avere i capelli di un colore o di un altro. Io sono nata genitore. Lo sono sempre stata. Lo ero anche con i miei, spesso, e con i fidanzati. E quando pensavo di non essere più in tempo per diventare madre, la vita mi ha regalato mia figlia. L’amore più grande.

Gamberale, questa mia ultima domanda la faccio sempre a tutti e a tutte. Immagini di avere ottant’anni, che sia una domenica mattina: dov’è, cosa fa, con chi è?

Bella questa. Dunque. Sono da sola, nella casa in campagna che sogno di comprare già da anni. Mia figlia mi ha appena telefonato, lei è altrove – forse all’estero –, e mi ha raccontato del suo weekend. Qualcuno bussa alla porta, è il mio fidanzato – non vive con me, ma poco distante ha una casa pure lui. Esco, e passeggiamo assieme tra le campagne.

Chiara Gamberale interviene con Walter Siti e Beppe Cottafavi mercoledì 6 novembre a “Il Futuro è Adesso”, l’evento di Domani in programma presso il Tempo di Vibia Sabina e Adriano: incontro alle 17.10 sul tema “I lettori, i corpi, le storie”

© Riproduzione riservata