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Nel museo etnologico vaticano è conservato il più antico manufatto amerindio di arte cristiana. Il sincretismo di questo reperto incarna il ruolo ambiguo della chiesa cattolica verso i nativi americani.
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La voce di mons. Wall si unisce a quella dei vescovi canadesi che di recente hanno invitato papa Francesco a porgere scuse formali dopo la scoperta dei resti di 215 minori nativi ritrovati nel giardino di una scuola cattolica a Kamloomps.
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A distanza di nove anni dalla canonizzazione della prima santa amerinda, la chiesa si trova a dover fare ancora i conti con un passato in cui l’evangelizzazione era lessico di un colonialismo spirituale.
Nel museo etnologico vaticano è conservato il più antico manufatto amerindio di arte cristiana: un leggio di legno a forma di conchiglia che apparteneva a Bartolomeo de Las Heras, il frate che evangelizzò le tribù caraibiche con Cristoforo Colombo. Il sincretismo di questo reperto incarna il ruolo ambiguo della chiesa cattolica verso i nativi americani.
È emerso anche questo nel vertice dei vescovi cattolici statunitensi, eclissato dalla questione della coerenza eucaristica di Biden. Dopo tre giorni di confronti, il 18 giugno i presuli hanno autorizzato la pubblicazione di nuove linee-guida per un ministero riservato ai nativi americani e dell’Alaska: «I leader dei nativi si sono detti finora preoccupati per la mancanza di interesse per un ministero a loro dedicato» ha dichiarato James Wall, vescovo della diocesi di Gallup, New Mexico.
La voce di mons. Wall si unisce a quella dei vescovi canadesi che di recente hanno invitato papa Francesco a porgere scuse formali dopo la scoperta dei resti di 215 minori nativi ritrovati nel giardino di una scuola residenziale cattolica a Kamloomps, nella Columbia Britannica. Secondo i nativi e alcuni vescovi, il «cammino di riconciliazione e guarigione» menzionato da papa Francesco nell’Angelus del 6 giugno non serve a nulla senza le scuse formali del capo della chiesa cattolica.
La scoperta in Canada
Sue Caribou, 50 anni, è affetta da polmonite cronica. Aveva sette anni quando fu abusata dai missionari che avrebbero dovuto istruirla in una scuola residenziale cattolica nel Manitoba: «Venivo gettata in una doccia fredda tutte le notti, dopo essere stata violentata» ha confessato al Guardian nel 2015. I corpi dissotterrati di recente sono l’ennesima conferma di una dorsale di violenza e soprusi che ha colpito i nativi fin dal Settecento con la compiacenza dei missionari cattolici.
Secondo la Commissione per la verità e la riconciliazione (Trc), sarebbero almeno 6mila i minori morti nelle scuole residenziali canadesi tra il 1867 e il 1996: una stima al ribasso per le autorità, al punto che il presidente della Trc, il magistrato Murray Sinclair, non ha avuto remore nel parlare di «genocidio culturale» perpetrato dal governo e dalla chiesa: «Questi momenti difficili rappresentano un forte richiamo per allontanarci dal modello colonizzatore e anche delle colonizzazioni ideologiche di oggi» ha ricordato il papa il 6 giugno. Eppure, già sei anni fa la Trc aveva chiesto al pontefice scuse, che non sono mai arrivate.
Excusatio petita
È per voltare pagina che ora alcuni vescovi si uniscono alla voce dei nativi dopo un’iniziale giustificazione del silenzio. Se in passato mons. Lionel Gendron, allora presidente dei vescovi canadesi, aveva rimandato le scuse formali a una visita apostolica sul modello di quanto già fatto da Bergoglio a Santa Cruz in Bolivia nel 2015, per ora non c’è ancora un viaggio in programma. Ha parlato di scuse necessarie anche mons. Thomas Dowd, vescovo di Sault Sainte Marie, che sta lavorando alla creazione di una delegazione che possa incontrare il papa a fine anno.
La ministra canadese Carolyn Bennett ha detto senza panegirici: «Bisogna assumersi la responsabilità del danno che è stato fatto, non solo ai bambini che sono stati presi, ma anche alle famiglie lasciate indietro e a quello che è successo loro». Sono dello stesso avviso i gesuiti del Canada: «Riconosciamo che è importante per la chiesa comprendere la storia e l’eredità dei conflitti religiosi nelle famiglie e comunità indigene. La chiesa ha una sua responsabilità nel mitigare i conflitti e prevenire la violenza spirituale» spiegano a Domani.
I gesuiti e la schiavitù
A distanza di nove anni dalla canonizzazione di Kateri Tekakwitha, prima santa amerinda, la chiesa si trova a dover fare ancora i conti con un passato in cui l’evangelizzazione era lessico di un colonialismo spirituale. La conferenza dei vescovi Usa e le richieste di quelli canadesi stanno mostrando la delusione verso un pontefice che, per le sue origini argentine, ci si aspettava più risoluto sul tema.
Eppure, i primi a riconoscere i limiti del loro passato sono stati i gesuiti, per esempio ammettendo la loro responsabilità nella vendita di 272 schiavi nel 1838 per saldare i debiti della nascente Georgetown University: oggi i loro discendenti sono stati risarciti simbolicamente da un fondo creato ad hoc come atto di riparazione e presa di consapevolezza della propria responsabilità: «Dalla fine degli anni Ottanta, quando i gesuiti si sono resi conto degli abusi fisici perpetrati nella loro scuola residenziale, molto è stato fatto», spiegano a Domani i gesuiti canadesi. «All'evento nazionale di Montreal il 25 aprile 2013, padre Winston Rye ha chiesto scusa e ha consegnato una dichiarazione di riconciliazione ai sopravvissuti delle scuole residenziali spagnole presenti». In Canada i gesuiti non solo collaborano a stretto contatto con la Trc, ma supportano anche il recupero delle lingue e culture indigene: «Ci impegniamo anche a rispettare la spiritualità indigena, come richiesto dalla commissione. La chiesa dovrebbe avere un ruolo importante nell’educazione della storia dei nativi». Per la compagnia in Canada, quindi, le scuse formali sono necessarie: «Crediamo che le scuse collettive di tutta la chiesa in Canada sarebbero un contributo importante alla guarigione dagli impatti della colonizzazione. Il presidente nazionale dell’Assemblea delle prime nazioni, Perry Bellegarde, ha detto che sarebbero un segno di rispetto. Le scuse sincere di papa Francesco aiuterebbero i sopravvissuti e le loro famiglie a compiere i passi verso la guarigione» hanno spiegato.
Santità agrodolce
Per la chiesa cattolica americana, però, non è sempre possibile dividere il bianco dal nero. Lo ha vissuto in prima persona papa Francesco alla vigilia del suo primo viaggio apostolico negli Stati Uniti con la controversa canonizzazione del frate Junipero Serra. Il missionario del Nuovo Mondo, che costellò la California di missioni per tutto il Settecento, non solo vantò il primato di aver battezzato oltre 6mila nativi, ma aprì anche la strada alle razzie e violenze dei conquistadores spagnoli e portoghesi nelle terre vergini: degli 80mila nativi battezzati fino all’Ottocento, 60mila morirono di stenti e malattie, e un terzo erano bambini.
La polarizzazione che aleggia intorno alla figura del religioso di San Diego è sufficiente a toccare la complessità del ruolo della chiesa cattolica nelle Americhe. Lo sa bene Bergoglio che, come ricorda Austen Ivereigh in Tempo di misericordia, ai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires era «profondamente impegnato a favore dell’unità del continente» nel solco dell’utopia della patria grande teorizzata dalla filosofa argentina Amelia Podetti. Questa ricerca di unità nella molteplicità sarà poi incarnata nel Consiglio dei vescovi latinoamericani (Celam), voluto da papa Pio XII per superare l’atrofia delle svariate chiese nazionali. Forte di questa idea “poliedrica” della chiesa cattolica, a Santo Domingo (1992) il Celam chiuse la parentesi della teologia della liberazione, a cui va comunque il merito di aver dato nuovo impulso al rinnovamento delle relazioni tra le gerarchie ecclesiastiche e i popoli autoctoni.
La chiesa indigena
Lo scorso aprile, la santa sede ha beatificato i martiri del Quiché: dieci testimoni religiosi e laici uccisi nella guerra civile che devastò il Guatemala tra il 1980 e il 1991. In quegli anni la chiesa cattolica pagò per aver fatto sue le istanze e i diritti dei popoli nativi. Suor Dianna Ortiz era il volto di quella chiesa combattiva e al servizio dei poveri e nel 1989 pagò con la tortura e le violenze la sua affiliazione ai movimenti autoctoni. La religiosa ha portato un peso così importante che solo anni di terapia hanno scandagliato in lei quei ricordi tragici che la mente aveva temporaneamente rimosso: «Dopo essere scappata, ha dedicato tutto il resto della sua vita a perseguire i diritti umani in Guatemala» ricorda a Domani la sua amica Marie Dennis, fino al 2019 co-presidente di Pax Christi International: «Suor Dianna ha vissuto con il ricordo della tortura per il resto della sua vita. In quegli anni, la chiesa cattolica era al fianco delle comunità indigene delle isole, e pertanto era considerata sovversiva dal governo. Molti leader cattolici e missionari persero la loro vita per questo» ammette. Per ricordare quelle pagine buie, le diocesi del Guatemala hanno istituito il Remhi, un progetto di recupero della memoria storica che analizza le testimonianze dei sopravvissuti alle torture, ricostruendo voci e volti.
Oggi davanti alla scuola di Kamloomps una recinzione accoglie 215 fiocchi rossi, uno per ciascun bambino disseppellito dalla fossa comune. Allo stesso modo, i californiani si stanno battendo per erigere croci nella baia di San Diego e ridare dignità ai volti senza nome degli indigeni morti nelle missioni. La richiesta di scuse avanzata al papa può, dunque, avere un potere taumaturgico sulle ferite delle minoranze che né le canonizzazioni né vaghe condanne alle ideologie potranno mai cicatrizzare.
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