L’ultimo importante esponente religioso a intervenire sulla guerra in Ucraina è stato Bartolomeo. Nel maggio scorso il patriarca di Costantinopoli, primo nel mondo ortodosso, ha di nuovo condannato l’atteggiamento di Cirillo: in un’intervista con la rivista spagnola Vida Nueva ha infatti definito «spregevole» la posizione del patriarca di Mosca schierato con Putin perché l’«ingiusta e ingiustificabile invasione di una nazione sovrana da parte dello stato russo» è contraria ai principi cristiani e ai diritti umani.

Come può «un predicatore del vangelo e ministro della chiesa» arrivare a «promettere garanzie di salvezza spirituale a eserciti mandati ad annientare una nazione vicina popolata da fratelli ortodossi»? E come «può un pastore responsabile punire il proprio clero perché nelle sue parrocchie prega per la pace invece che per la vittoria?» si è chiesto l’arcivescovo di Costantinopoli.

Soltanto papa Francesco – peraltro molto criticato, e non a torto, per la sua linea tutt’altro che ostile alla Russia – era stato più sferzante quando nel 2022, poche settimane dopo l’invasione, aveva detto al direttore del «Corriere della Sera» che Cirillo «non può trasformarsi nel chierichetto di Putin».

Il pontefice aveva riferito di aver parlato con il patriarca moscovita «via zoom» per una quarantina di minuti. «I primi venti con una carta in mano mi ha letto tutte le giustificazioni alla guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: di questo non capisco nulla. Fratello, noi non siamo chierici di stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace».

Sullo sfondo della condanna della guerra emerge dalle parole del patriarca Bartolomeo e di papa Francesco l’intrico problematico del rapporto tra religione e politica. Comune alla maggior parte delle tradizioni religiose, questo nodo ha assunto aspetti caratteristici in ambito bizantino ed è passato nel cristianesimo slavo.

Le origini

Il tema percorre le vicende russe fin dal «battesimo» della nazione: una conversione dal paganesimo che è stata fissata nell’anno 988 e che, secondo una cronaca medievale, viene collegata al fascino della liturgia bizantina. «Ancora non possiamo dimenticare quella bellezza» avrebbero riferito al principe Volodymyr di Kyiv gli inviati di ritorno da Costantinopoli, evocando un termine che dalla filosofia greca arriverà alla celebre affermazione dostoevskiana secondo la quale sarà proprio la bellezza a salvare il mondo.

Anche il legame strettissimo tra sacerdozio e impero risale al mondo antico e a Costantinopoli: non a caso Empereur et prêtre («imperatore e prete») s’intitola la classica sintesi di Gilbert Dagron sul «cesaropapismo» bizantino. Sono queste le radici dello speciale rapporto tra stato e chiesa, filo conduttore dei quattro volumi della Storia della Russia e del recente Da Lenin a Putin di Giovanni Codevilla, pubblicati da Jaca Book e corredati da due saggi di Stefano Caprio, autore sul sito di Asianews dell’informatissimo blog «Mondo russo».

Tra invasioni da oriente e da occidente, la più importante sede ecclesiastica della Rus’ si sposta da Kyiv dapprima a Vladimir e poi a Mosca. Ormai indipendente da Costantinopoli – la «nuova Roma» caduta dal 1453 in mano turca – la chiesa russa mantiene legami profondi con la radice bizantina. Nasce così l’idea di Mosca come «terza Roma», il granduca diviene imperatore (zar) e dal 1589 il metropolita assume il titolo patriarcale. Come scrive Thomas Bremer (La croce e il Cremlino, Queriniana), tutto questo comporta «la coscienza di un ruolo salvifico predestinato»: quello della Russia e della sua chiesa come «l’ultimo, libero bastione ortodosso».

È allora che zar e patriarca acquisiscono una «particolare sacralità», determinando la «specificità della concezione russa del potere secolare e di quello spirituale». Il legame resiste anche alla soppressione del patriarcato: liquidato nel 1721 da Pietro il Grande, che lo rimpiazza con una più docile istituzione sinodale, dopo quasi due secoli il patriarcato viene ricostituito nel 1917 dal concilio di Mosca, in gran parte composto da laici, «caso unico» nella storia, sottolinea Codevilla.

L’epoca sovietica

Sono i «giorni terribili, fra il fuoco e cannonate mortali», della rivoluzione bolscevica, come afferma il 4 dicembre durante l’intronizzazione il nuovo patriarca Tichon: giorni «molto dolorosi e difficili» – ribadisce il neoeletto nella sua prima lettera – quando «si sono oscurati nella coscienza popolare i principi cristiani della costruzione statale e sociale, si è indebolita la stessa fede, infierisce lo spirito senza Dio di questo mondo». Ma è solo l’inizio di un settantennio oscuro: quello del potere sovietico.

Sulla chiesa russa si abbatte «una persecuzione unica, per il numero delle vittime, per la durata e la qualità dell’oppressione, per il tipo di aggressione da parte di uno stato, che non voleva solamente ridurne gli spazi, ma voleva sostituirsi a essa» ha riassunto Adriano Roccucci in Stalin e il patriarca (Einaudi). E le cifre sono spaventose: «Secondo stime attendibili, almeno un milione di vittime solo per motivi religiosi», uccise soprattutto negli anni Venti e Trenta.

Alla morte del patriarca Tichon, mandato a processo, nel 1925 l’offensiva contro la religione si fa spietata e al gerarca ortodosso non viene dato un successore. Finché nel 1943, in piena guerra, per coinvolgere anche la chiesa nella difesa della patria il persecutore Stalin permette l’elezione di un nuovo patriarca, Sergio, inevitabilmente contiguo al potere sovietico come lo saranno i suoi successori: Alessio I, Pimen, Alessio II e ora Cirillo.

Dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale Stalin procede in Ucraina alla liquidazione dei vescovi e del clero greco-cattolici, e questa chiesa viene riunita con la forza a quella ortodossa, dalla quale si era separata nel 1596. A farsi carico dell’operazione è Nikita Chruščëv, che alla morte del dittatore nel 1953 diviene suo successore, ne denuncia i crimini e avvia la destalinizzazione – da qui la sua immagine positiva – ma che ordina con durezza la ripresa della lotta antireligiosa e dell’assoggettamento dei quadri ecclesiastici al partito comunista.

Nello stesso tempo, per rispondere alla svolta impressa alla chiesa cattolica dal pontificato di Giovanni XXIII e dalla convocazione del concilio, viene inaugurata una inedita presenza internazionale della chiesa russa. Che opera sia sul piano ecumenico – nonostante ricorrenti riserve e la costante competizione con Costantinopoli – sia in coerenza con la politica sovietica, fondata sulla facile retorica della pace per ottenere consensi nell’opinione pubblica occidentale.

Tra i gerarchi ortodossi selezionati e ovviamente condizionati dal regime sovietico spicca il filocattolico Nikodim, «ministro degli esteri» della chiesa russa, di cui peraltro le autorità politiche non si fidano. Ma nel 1978 il brillante metropolita muore d’infarto, non ancora quarantanovenne, tra le braccia di Giovanni Paolo I, che gli riserva un pubblico elogio: «Ortodosso, ma come ha amato la chiesa!». E nel 2004 la sua vicenda torna nel romanzo L’hôte du pape dello scrittore francese d’origine russa Vladimir Volkoff, dove questo «ospite del papa» è nello stesso tempo vescovo e ufficiale del Kgb: due ruoli coesistenti che sono ispirati alle reali biografie di non pochi ecclesiastici del patriarcato di Mosca.

Il patriarca Cirillo

All’ombra di Nikodim cresce Cirillo, figlio e nipote di eroici sacerdoti, del quale nel 2023 un’inchiesta giornalistica svizzera ha documentato la collaborazione giovanile con il Kgb. Capace e preparato, Cirillo dal 1989 è nominato «ministro degli esteri» e diviene popolare grazie a un programma televisivo che lo lancia nella nuova Russia post-comunista. Poi le sue spregiudicate iniziative economiche gli valgono la fama di «oligarca ecclesiastico».

Cirillo si adopera con successo per la revisione nel 1997 della legge sulla libertà religiosa varata sette anni prima: in senso restrittivo e favorevole alla chiesa ortodossa, che stabilisce legami sempre più saldi con il potere dello stato e si rafforza anche con una dottrina sociale inedita che vuole imitare quella cattolica.

E con la concezione totalizzante e imperiale del «mondo russo» – Russkij mir, espressione che significa anche «pace russa» – il patriarca, eletto nel 2009, offre la base ideologica alla politica aggressiva di Putin. Dimostrando di esserne il vero ispiratore, piuttosto che un chierichetto.

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