«Nel mezzo del cammin di nostra vita»: la Divina Commedia inizia così, con un errore! Dante immaginava che la vita durasse settant’anni, e ne aveva trentacinque nel 1300, l’anno del suo fantasioso viaggio mentale nell’aldilà. Pensava di essere solo a metà del proprio cammino nell’aldiquà, e invece era già quasi a due terzi: morì nel 1321, a cinquantasei anni, commettendo un errore di valutazione del 20 per cento, che mette in guardia fin da subito dall’illusione di trovare nella Commedia delle verità fattuali.

In realtà Dante, benché i romantici l’abbiano canonizzato come un pensatore universale, era un poeta italiano, e si preoccupava molto più della bellezza della propria lingua, che della correttezza dei propri discorsi.

L’endecasillabo

Lasciamo dunque ai romantici il contenuto della Commedia, che tradisce malamente i sette secoli del suo triplice anacronismo (aristotelico, tolemaico e tomista), e concentriamoci sulla sua forma, basata su versi chiamati endecasillabi, che non hanno però tutti undici sillabe!

Il motivo è che l’endecasillabo italiano deriva dal decasillabo francese, che aveva appunto dieci sillabe, l’ultima delle quali ovviamente accentata: in francese, infatti, l’accento cade sempre sull’ultima sillaba di una parola. In italiano, invece, cade in genere sulla penultima: un verso che abbia l’ultimo accento sulla decima, ha dunque in genere undici sillabe, e per questo si chiama endecasillabo. Ma di sillabe può averne dieci, se l’accento cade sull’ultima, o dodici, se cade sulla terzultima, e ci sono esempi di entrambi i casi nella Commedia: chi li cerca, li trova.

Come mostra la definizione stessa di endecasillabo, nella poesia gli accenti sono fondamentali: non solo quelli locali, delle singole parole, ma anche quelli globali, degli interi versi. Se uno si sofferma su quello d’inizio della Commedia, si accorge che è composto di due parti: «Nel mezzo del cammin» ha l’accento finale sulla sesta sillaba (è un eptasillabo), «di nostra vita» ce l’ha sulla quarta (è un pentasillabo). Nel secondo verso succede il contrario: «mi ritrovai» ha l’accento sulla quarta, e «per una selva oscura» sulla sesta.

Gli endecasillabi canonici sono tutti di questi due tipi, che si chiamano rispettivamente maggiore e minore, come per gli accordi musicali. Sia nella poesia che nella musica, il maggiore è più solenne e assertivo, il minore più pacato e sottotono, e la loro successione contribuisce alla musicalità dell’insieme.

Benché un endecasillabo abbia quasi sempre undici sillabe, può avere un numero variabile di parole, e al limite ridursi anche a una sola! Fu proprio Dante, nel De Vulgari Eloquentia, a notare che sovramagnificentissimamente è un endecasillabo di ventisette lettere, anche se poi non l’ha usato nel suo poema. Nella Cortona convertita (1677) Francesco Moneti usò invece l’endecasillabo precipitevolissimevolmente, che ha una lettera in meno, ma è più noto del precedente, e spesso si crede erroneamente che sia la più lunga parola italiana. All’estremo opposto, un endecasillabo non può avere meno di una dozzina di parole: «tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno» ne ha appunto dodici, e stabilisce un altro record dantesco nella Commedia.

Anche il numero delle lettere di un endecasillabo può variare enormemente. Quello che ne ha meno nel poema di Dante sembra essere «E “Ov’è ella?”, subito diss’io», con venti lettere, ma la cosa più interessante è un’altra: cioè, che usi tutte le vocali. Chi pensa che sia solo un caso, e che magari Dante non se ne sia nemmeno accorto, non ha letto il suo Convivio, nel quale il poeta discute a lungo del verbo latino auieo, costituito di tutte e sole le vocali, «che sono anima e legame d’ogni parole». Secondo lui il verbo in questione significherebbe “legare parole”, e starebbe all’origine della parola “autore”: con questa falsa etimologia Dante rivela che per lui la letteratura è soprattutto un gioco di parole, più ludico che serio.

La frequenza delle lettere

Prendiamo ad esempio l’episodio di Paolo e Francesca, dal Canto cinque dell’Inferno. Innumerevoli lettori e commentatori si sono lasciati distrarre dal fumettone strappalacrime dei due sfortunati amanti, benché già Cecco d’Ascoli l’avesse stigmatizzato nell’Acerba (1327) come un tipico esempio di «cantare al modo delle rane», e «fingere immaginando cose vane». Ma forse neppure lui si era accorto del pezzo di bravura nascosto nella famosa terzina introduttiva dell’episodio: «Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere, dal voler portate», che contiene tutte le ventun lettere dell’alfabeto! Cioè, la terzina è panletterale, così come il verso citato poco sopra era panvocalico.

Qualche secolo dopo Dante, scienziati come Galileo, Keplero e Newton si divertiranno a non comunicare esplicitamente i loro versi, ma soltanto implicitamente la frequenza delle loro lettere: ad esempio, nel caso della terzina dantesca, ci sono ben tredici occorrenze di “e” e undici di “a”, ma solo una di “q” e “z”, con una distribuzione che rispecchia già abbastanza fedelmente la frequenza statistica delle varie lettere dell’alfabeto italiano in testi sufficientemente lunghi.

All’epoca di Galileo, Keplero e Newton, per risalire dalla frequenza delle lettere al messaggio ci voleva un cervello come il loro, e neanch’essi ci riuscivano sempre, ma oggi la crittoanalisi statistica e un computer permettono a chiunque di farlo in quattro e quattr’otto.

Molte altre curiosità e complicazioni si nascondono nei versi di Dante, dal computo delle sillabe all’incatenamento delle rime. Ad esempio, «mi ritrovai per una selva oscura» è un endecasillabo soltanto se si fondono le due ultime parole in un’unica “selvoscura”: trucchi di questo genere sono ubiqui nella Commedia, e uno usuale è trattare Beatrice come si merita, sillabandola Bea-tri-ce o Be-a-tri-ce, a seconda del bisogno. D’altronde, se uno decide di formare un endecasillabo mettendo insieme un pentasillabo e un eptasillabo, o viceversa, deve risolvere in qualche modo il problema che cinque più sette fa dodici, come sanno i filosofi kantiani, e non undici, come pretendevano i poeti medievali.

Per quanto riguarda le rime, invece, a volte Dante semplicemente bara, ripetendo una stessa parola. Altre invece cammina sul filo del rasoio, usando una stessa parola con due significati diversi: l’intero suo poemetto Detto d’amore è costruito su queste rime equivoche, e il suo continuo ondeggiamento semantico fa presto venire il mal di mare. Altre volte, infine, «anche il grande Dante talvolta sonnecchia»: come quando, nel Canto 24 del Paradiso, va semplicemente a capo alla fine di un verso, nel bel mezzo della parola “differente-mente”, manco fosse una canzonetta di Sanremo.

L’enigma geometrico

Ma i veri enigmi della Commedia si nascondono nelle strutture dei regni danteschi: a partire dall’Inferno, del quale i letterati si sbizzarrirono fin da subito a discutere la forma, e artisti come Giotto e Botticelli a rappresentarla. Poiché il problema non era letterario o linguistico, ma architettonico e geometrico, la soluzione richiedeva poche competenze umanistiche, e molte tecnico-scientifiche: non a caso, fu Galileo a trovarla, nelle Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (1588).

Il Sommo poeta basava la sua cosmologia su un’infima storia incentrata su Lucifero, che nella tradizione greca indicava la stella del mattino, cioè il pianeta Venere, e nel nuovo Testamento addirittura Cristo stesso. Nella teologia medievale, invece, Lucifero era ormai passato a indicare l’angelo ribelle, che era stato espulso dal Paradiso.

La leggenda fraintendeva un paio di passi biblici, che parlavano di tutt’altro, e Dante ci aggiunse del suo, immaginando che Lucifero fosse piombato in caduta libera nel bel mezzo dell’oceano pacifico, agli antipodi di Gerusalemme, andando a conficcarsi all’interno della Terra: l’ombelico esattamente nel centro, la testa e il busto rivolti verso l’emisfero settentrionale, e le gambe verso quello australe.

L’Inferno dantesco era la voragine provocata dal cataclisma, e i primi commentatori se lo rappresentavano come una specie di imbuto, formato da sezioni cilindriche telescopiche, a pareti verticali: dunque, inclinate rispetto ai raggi terrestri. Prendendo seriamente gli indizi dimensionali disseminati nel poema, Galileo ricostruì invece la forma dell’Inferno come un cono invertito, con il vertice nel centro terrestre, e dunque nell’ombelico di Lucifero, l’asse passante per Gerusalemme, e la base avente un raggio pari a metà di quello terrestre.

Le due lezioni di Galileo costituiscono una specie di Commedia 2.0, e benché trattino dell’Inferno, salgono ad altezze che il poema di Dante non raggiunge nemmeno trattando del Paradiso. In particolare, adombrano problemi di statica, di caduta dei gravi e di resistenza dei materiali che diventeranno centrali nei suoi Discorsi sopra due nuove scienze (1638), e permetteranno di dimostrare che Dante aveva sbagliato tutto: il suo Inferno conico doveva essere o radicalmente più stretto alla base, o radicalmente più basso in altezza, e il suo Lucifero o molto meno gigantesco, o molto più deforme.

Quanto al Paradiso, Dante se l’immagina come una serie di sfere angeliche decrescenti, che convergono a un punto centrale che è Dio, così come Tolomeo aveva immaginato il mondo fisico come una simmetrica serie di sfere celesti crescenti, che divergono dalla sfera centrale che à la Terra. Questa volta fu il matematico svizzero Andreas Speiser a proporre generosamente, nel libro Pezzi classici di matematica (1925), di interpretare la struttura dell’universo dantesco come la rappresentazione cartografica tridimensionale di un’ipersfera, analoga alla rappresentazione cartografica bidimensionale della sfera terrestre mediante la doppia serie di cerchi corrispondenti ai paralleli dei due emisferi, nei ruoli delle sfere celesti e angeliche, con i due poli nei ruoli della Terra e di Dio.

Possiamo dunque ben dire, parafrasando il Bardo, che ci sono più cose nella Divina Commedia, di quante se ne sognino gli umani umanisti. Cose di cui né loro, né lo stesso Dante capirebbero niente, esattamente come Cristo e i suoi apostoli non avrebbero capito niente della teologia medievale.

© Riproduzione riservata