- Ai David di Donatello, agli Oscar e a Cannes, le donne continuano a mietere meno successi, anche se le proporzioni tra premiati maschi e femmine migliorano un pochino.
- Il paradosso è che l’industria, ai suoi albori, era sorretta proprio dalle donne: ci siamo dimenticati che le madri di Hollywood, nell’èra del muto, scrivevano, dirigevano e sceneggiavano i primi grandi film.
- Anche quando sono premiate, le donne traggono meno benefici dai loro successi rispetto agli uomini. Il cinema rimane insomma per molti versi, malgrado le sue origini, una cosa da maschi.
Le persone candidate ai più importanti premi cinematografici italiani, i David di Donatello, quest’anno erano circa 140: di queste persone, se non ho fatto male i conti, 50 erano donne – ma tolti i due premi all’interpretazione, per i quali essere donna è “obbligatorio”, le candidate scendono a 40. Di queste, durante l’orrifica cerimonia di premiazione, sono salite sul palco a ritirare la statuetta in 12: un numero sorprendente, considerando che fra le statuette ritirate c’era quella al miglior documentario (Il cerchio di Sophie Chiarello, la quinta regista premiata in questa categoria in 19 edizioni) e alla migliore opera prima (Settembre di Giulia Louise Steigerwalt, la quinta in 41 edizioni). Un numero sorprendente soprattutto se lo si confronta con quello di dieci anni fa, quando – il 14 giugno 2013 – le donne sul palco erano state 5, a fronte di 22 maschi, e includo pure le attrici. Resta ancora saldo, però, l’annoso divario tra le categorie cosiddette artistiche (scenografia, costumi, trucco, acconciature) e quelle tecniche (fotografia, montaggio, suono, effetti visivi): nessuna professionista infatti, tanto quest’anno quanto nel 2013, era nominata per aver composto la migliore colonna sonora, nessuna per la migliore fotografia, solo una per gli effetti visivi.
Le persone candidate agli Oscar di marzo, invece, erano molte di più: circa 230. Tolti ancora i due premi all’interpretazione, le donne erano 55, e hanno ritirato la statuetta in 10 (nella metà dei casi senza proferire parola): nessuna era nominata per aver scritto la migliore sceneggiatura originale, nessuna per aver composto la migliore colonna sonora, nessuna per gli effetti visivi.
Madri del cinema
Eppure c’è qualcosa che non torna, su questi palcoscenici, dato che, come si dice, Hollywood è stata costruita dalle donne, dagli immigrati e dagli ebrei: ossia da coloro che, cent’anni fa, non avrebbero potuto ambire ad altre professioni. È stato l’avvento del sonoro, e i costi moltiplicati delle produzioni, a far entrare Wall Street nell’industria – e, con i soldi, i maschi e il potere.
Sebbene oggi, come appare dai premi, le trame siano appannaggio maschile, fino al 1925 i film sono stati scritti in gran parte da donne: una di loro, Frances Marion, la meglio pagata dell’ambiente, vinse due Oscar per la sceneggiatura e fu la prima a riuscirci: prima per Carcere, poi per Il campione. «Questo dimostra», dice la storica del cinema Cari Beauchamp, «come sia falsa l’idea che le donne scrivessero tanto per scrivere, o che scrivessero solo film strappalacrime: scrivevano tutti i tipi di film». Nel 1913 invece, col suo Suspense, Lois Weber concepì lo split screen: aveva bisogno di mostrare contemporaneamente la protagonista (interpretata da sé stessa), il marito e l’uomo che si intrufolava in casa loro; quando poi il marito salta in auto per raggiungere la consorte, Weber inquadra di scorcio lo specchietto retrovisore per inquadrare in realtà la polizia riflessa che lo insegue: è la soggettiva.
Le cineaste si erano sedute dietro la macchina da presa già da tempo: Alice Guy-Blaché non solo è stata una delle prime donne che ha diretto un film, ma è stata anche una delle prime persone a farlo; contemporanea di Georges Méliès ma infinitamente meno nota, «fu tra le prime persone a organizzare una pellicola secondo un arco narrativo», dice ancora Beauchamp: «fino a quel momento c’erano stati film su uno sternuto, su un’onda; lei, per la prima volta, creò dei veri racconti». Nel 1910 Alice Guy fondò col marito Herbert Blaché la Solax Company, il più grande studio pre-hollywoodiano d’America: ciò la rese la prima donna a possedere un impianto di produzione, nel quale aveva fatto affiggere un cartello che diceva: be natural.
Dopodiché, per vedere una donna a capo di una major come la intendiamo oggi bisognerà aspettare il 1980, quando la 35enne Sherry Lansing approderà alla 20th Century Fox; per ingannare (letteralmente) questi settant’anni di attesa, un uomo ossessionato dagli Oscar quasi quanto me – Ryan Murphy – ha anticipato la data al 1947, nella cosiddetta Golden Age; i sette episodi della sua miniserie Hollywood non immaginano solo come sarebbe andata se gli studios fossero stati gestiti dalle mogli, ma si chiedono anche cosa sarebbe successo se avessero prodotto sceneggiature scritte da autori afroamericani, se Rock Hudson avesse fatto coming out, e se la prima nomination all’Oscar per un’attrice nera fosse arrivata nel 1948 e non nel 1954.
Il peso dei premi
In quest’ultimo caso sarebbe cambiato poco, dato che il primo Oscar a una protagonista nera è comunque arrivato nel millennio successivo (i maschi, neanche a dirlo, avevano assolto il compito già nel 1963). Dopo sette attrici Black spalmate in cinquant’anni, nel 2001 Halle Berry è stata la prima a salire su quel palco, e finora l’unica (mentre i maschi sono saliti in cinque), domandandosi, qualche anno dopo, «è stato un momento importante o è stato solo un momento importante per me? Ho pensato: riceverò fantastiche sceneggiature, grandi registi busseranno alla mia porta… Non è successo. In realtà è diventato ancora più difficile: ci si aspettava che offrissi esibizioni degne di un premio».
Vincere un Oscar comporta un aumento di cachet: secondo una ricerca della Colgate University, però, se agli uomini assicura uno stipendio maggiorato di circa 3,9 milioni di dollari, le donne, nella migliore delle ipotesi, si fermano a 500mila. Berry, dopo la statuetta, fu pagata 12,5 milioni per interpretare Catwoman, ma il film, nel 2004, sarebbe stato considerato tra i peggiori di sempre (e le ha fatto ottenere il Razzie come peggiore attrice, che lei andò a ritirare, diventando la prima a farlo).
E infine, sabato scorso, si è conclusa la 76esima edizione del Festival di Cannes: ad assegnare la Palma d’Oro è stata chiamata Jane Fonda: «La prima volta che sono venuta a Cannes», ha detto, «era il 1963: non c’era nessuna regista in concorso e non ci sembrava strano. Quest’anno ce ne sono sette: è una cifra storica, ma in futuro sarà la normalità». Peccato che, fino a quel momento, nessuna delle sette registe fosse salita sul palcoscenico: il Premio della Giuria, il Gran Premio, la migliore regia e la sceneggiatura erano stati vinti tutti da uomini. Nessuno dei quali, fortunatamente, ha ripetuto quello che Francesco Amato ha dichiarato nel 2021, ritirando il David Giovani (stavamo parlando, in fondo, dei David di Donatello): «Ringrazio la donna della mia vita», disse senza nemmeno nominarla; «Se questo film esiste, è perché lei è stata a casa coi bambini».
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