Los Angeles, 13 gennaio del 1972.  C’è una piccola folla assiepata dentro il Nuovo tempio della chiesa battista. Afroamericani, bianchi, chi con i capelli lunghi, chi con pettinature afro, i pantaloni a zampa d’elefante regnano sovrani con camicie dai colori chiassosi e gli occhiali da sole vengono indossati con sfrontatezza. Tutti sono lì per lei, per la regina del soul, per quella che ancora oggi è considerata come la più grande cantante di ogni tempo: Aretha Franklin.

Tra quelle quattro mura, Aretha ha deciso di incidere dal vivo il suo nuovo album intitolato Amazing Grace. In quell’inizio di anni Settanta, il soul comincia ad avere meno presa sul pubblico, l’era disco sta prendendo il sopravvento a dispetto del suo diciottesimo album, Young, Gifted and Black, con cui proprio in quel 1972 vincerà un Grammy.

Allora perché Aretha è in quella chiesa, di fronte a un pubblico molto più ridotto di quello che potrebbe avere? Perché quel suo nuovo album, quell’Amazing Grace inciso dal vivo, è un album gospel, è il suo ritorno alle origini, il suo riconnettersi con la musicalità sacra, con quegli inni cristiani legati ai tempi della sua infanzia, quando scoprì che cantare era l’unica cosa che contasse per lei.

Quell’incisione dal vivo realizzata il 13 e 14 gennaio 1972, di fronte a quel piccolo ma infervorato pubblico, fu immortalata nientemeno che da Sidney Pollack, incaricato dalla Warner Bros. di realizzare un film che per oltre quarant’anni però il pubblico non ha potuto vedere.

Ora, anche nelle nostre sale, arriva Amazing Grace, ed è senza ombra di dubbio il più importante documento audio-visivo di sempre su Aretha, in uno dei momenti maggiormente iconici della sua carriera, mentre registrava il più grande album gospel di tutti i tempi.

21/07/1970 Antibes, Jazz Festival, concerto di Aretha Franklin Live concert of Aretha Franklin, music, singer

Un’attesa lunga 47 anni

Amazing Grace non è stato reso pubblico per 47 anni. Sidney Pollack, regista che all’epoca era reputato tra i più promettenti della nuova generazione, durante la fase di montaggio dovette con i suoi collaboratori affrontare l’amara realtà: non avevano una tecnologia che permettesse di sincronizzare audio e video in modo soddisfacente.

Anche per questo, Aretha si oppose per decenni alla distribuzione del film. Solo dopo la sua morte, nel 2018, tramite un accordo con i familiari, si è potuta mostrare la versione creata ex novo dal produttore Alan Elliott, capace di ovviare ai problemi tecnici grazie alle nuove tecnologie digitali.

Il risultato finale arrivato in sala conta 87 minuti, durante i quali la regina del soul è autrice di una performance straordinaria, coadiuvata da un grande della musica gospel come James Cleveland e dal Southern California community choir diretto da Alexander Hamilton.

Lawrence, grande intrattenitore e oratore, prepara il pubblico, lo scalda, spiega che potranno esserci pause o interruzioni per motivi tecnici, allenta la tensione.

L’emozione del concerto

Poi Aretha entra, sorride, cammina a piccoli veloci passi verso il palco. Dietro il volto apparentemente imperturbabile, da performer consumata, gli occhi tradiscono un mare di emozioni. Il primo pezzo con cui comincia la session è Wholy Holy, ed è stato scritto dall’altro fuoriclasse del soul e dell’r&b di quegli anni: Marvin Gaye.

Bastano pochi istanti perché il pubblico, lo stesso coro e persino la troupe, diventino un piccolo, tumultuoso mare di volti estasiati, stregati dalla sua voce.

What A Friend We Have In Jesus, Never Grow Old, Mary, Take My Hand Precious Lord esaltano il pubblico, creano un’atmosfera unica. Il 16 mm di Pollack scandaglia ininterrottamente la platea, inquadra mille facce dai mille colori, ognuno dei quali perso individualmente nella sua fruizione eppure parte di un'unica collettività. Vi è il volto madido di sudore di Aretha che instancabile canta a occhi chiusi, Hamilton che si agita dinoccolato, James Cleveland che non regge l’emozione, si siede e con la testa tra le mani scoppia in lacrime.

Anche per profani

Amazing Grace, anche per chi non è mai stato un fan di Aretha Franklin e del gospel, rappresenta un’esperienza di enorme impatto emotivo, un viaggio dentro non tanto il passato o un preciso genere musicale, ma nella capacità dell’armonia di unire le persone, di superare le differenze.  

Vi sono le ragazze afroamericane dei sobborghi di Los Angeles e i bianchi dei quartieri bene, sconosciuti con i capelli cotonati e nientemeno che Mick Jagger e Charlie Watts, prima timidamente sul fondo, poi seduti con gli altri a battere le mani a tempo.

Vi è anche il padre di Aretha, il reverendo battista C.L. Franklin, che prende la parola, rivendica il suo orgoglio di genitore, ricorda i tempi che furono, quando dovette crescere Aretha da solo, con la Bibbia in una mano e la musica nell’altra.

L’ex ragazza madre di Detroit (che con quell’album vinse un altro Grammy e vendette due milioni di copie) esalta la platea pur nell’assenza di ogni contatto diretto, con la sua voce crea una mistica unione in cui sacro e profano convivono in simbiosi perfetta. Tutto di fronte a noi è realistico, totalmente scevro da ogni artificiosità, con le interruzioni, i piccoli errori, il passo incerto della telecamera. Eppure forse proprio per questo, l’insieme riesce a essere una delle manifestazioni più esemplificative dell’incredibile talento che albergava in Aretha.

Lei, che fu anche voce dei diritti civili e del femminismo, lei che tanti anni dopo avrebbe accompagnato al microfono l’insediamento di Barack Obama, ci lascia sgomenti con la sua Amazing Grace lunga ben 11 minuti, fa ballare le ragazze di fronte alla croce, mentre Pollack gesticola verso i suoi cameramen.

Aretha avrebbe conosciuto diverse difficoltà artistiche in quegli anni Settanta, avrebbe dovuto attendere il 1980 e un altro film per rinascere tra il grande pubblico: The Blues Brothers, dove cantò la sua celebre Think.

THE BLUES BROTHERS [US 1980] JOHN BELUSHI, ARETHA FRANKLIN, DAN AYKROYD Date: 1980

Anche per questo, Amazing Grace risulta così importante, perché ce la mostra al massimo del suo splendore, nella sua veste artistica più intima e personale, ci ricorda perché è stata la più grande.

© Riproduzione riservata