- Alla Mostra del Cinema ho visto il film di Frammartino, Il buco. Ricostruisce una spedizione di speleologi negli anni Sessanta in una delle grotte più profonde della Calabria.
- Un po’ di spettatori sono rimasti delusi. Sentendo i loro commenti, ero incredulo che non riconoscessero la grandezza di questo film. Come mai? È una storia a bassa intensità narrativa, se la si giudica con le aspettative che abbiamo di solito entrando al cinema.
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Il problema delle arti narrative, sia nel cinema che nei romanzi, è proprio questo: sono inconsapevolmente ideologiche. Contengono due presupposti intransigenti: che sia necessario avere un protagonista; e che questo protagonista passi attraverso una svolta sorprendente.
«Michelangelo Frammartino, che cosa pensa che la giuria della Mostra del Cinema di Venezia abbia amato del suo film assegnandogli il premio speciale?»
«Spero sia il fatto che il protagonista di Il buco è il pianeta: il pianeta e il paesaggio. Quindi nel mio film non c’è un piccolo protagonista umano, per quanto meraviglioso, ma c’è il pianeta nella sua grandezza».
Questo frammento di intervista, che ho intercettato in coda a un giornale radio Rai, coglie un punto cruciale delle arti narrative di oggi: come si possa contribuire a far cambiare mentalità, come spronare a una trasformazione delle scelte di vita, nell’epoca dell’Antropocene e della crisi climatica ormai conclamata.
Le abitudini umane stanno preparando le prossime catastrofi e forse l’estinzione della nostra specie, ma noi non la percepiamo come un’emergenza. È necessario cambiare comportamenti; per riuscirci, però, bisogna cambiare prima di tutto il nostro modo di pensare.
Può aiutarci a farlo anche l’arte di raccontare il mondo? In Italia è stata la studiosa Carla Benedetti a chiederselo, in un libro dal titolo eloquente: La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi).
Tensione narrativa
Alla Mostra del Cinema ho visto il film di Frammartino, Il buco. Ricostruisce una spedizione di speleologi negli anni Sessanta in una delle grotte più profonde della Calabria, che si conficca in verticale fin quasi a settecento metri nel sottosuolo. Il montaggio è alternato con l’agonia di un vecchio pastore che viene assistito dai suoi amici. In un’ora e mezza di film quasi non ci sono dialoghi; quando le persone aprono bocca, le loro parole sono come borbottii sentiti da lontano; così le voci umane equivalgono a suoni animali: sia quelle dei cólti scienziati, sia quelle dei pastori analfabeti; che infatti, intorno al fuoco di sera, si divertono a imitare i versi delle bestie.
Il film è una specie di abbraccio spalancato quando inquadra i versanti del monte Pollino, le valli verdissime, i boschi densi, i paesaggi annuvolati, e diventa una strettoia sfinterica quando si inabissa sottoterra, una cruna arrossata dalle fiammelle speleologiche che ardono sui caschi degli esploratori: i loro corpi si infilano fra le rocce, provocando angoscia negli spettatori.
Ma non voglio fare una recensione di questo meraviglioso film, che avrebbe tanti, davvero tanti altri elementi interessanti da analizzare. Dico solo due cose.
La prima è un aspetto rivelatore della mia mentalità di spettatore. Via via che gli speleologi scendevano in quell’abisso ctonio, ero sempre più in tensione, mi aspettavo che accadesse qualcosa di drammatico. Un incidente? Una caduta? Una frana? Feriti da salvare? La comparsa di un mostro? Decenni da consumatore di storie, vere o inventate che fossero, hanno plasmato la mia struttura mentale e le mie aspettative narrative.
Contemplare
Perché ci mettiamo a raccontare? Perché è successo qualcosa di inconsueto, una svolta, un colpo di scena. Qualcuno aveva un progetto, e invece le cose sono andate diversamente da come voleva: ecco la struttura primaria delle storie, il minimo sindacale che ci aspettiamo da loro.
Nel Buco di Frammartino, un tale minimo sindacale è a malapena raggiunto. E ciò ha provocato il secondo effetto che voglio riferire qui. Alla Mostra del Cinema, un po’ di spettatori sono rimasti delusi. Sentendo i loro commenti, ero incredulo che non riconoscessero la grandezza di questo film. Eppure, una parte del pubblico si è annoiata. Come mai? Proprio per i due motivi che ho appena descritto. È una storia a bassa intensità narrativa, se la si giudica con le aspettative che abbiamo di solito entrando al cinema.
Forse io ho amato così tanto questo film anche grazie alla mia passione per la videoarte contemporanea, per certi lavori di David Claerbout, Apichatpong Weerasethakul, Tacita Dean, Pierre Huyghe, Francesca Grilli, Yuri Ancarani (bellissimo il suo Atlantide, presentato alla Mostra, che racconta sì una storia, ma anch’essa con una trama esile, quasi un pretesto su cui fondare le immagini). Spesso, i videoartisti sono più contemplativi che narrativi: insegnano non solo un altro modo di guardare il mondo, ma – è questo che mi premeva dire – mostrano un altro modo di accadere delle cose, e di aspettarsi che esse accadano. Non è detto che ci debba essere per forza un personaggio principale, e non è detto nemmeno che debba scaturirne una concatenazione di cause ed effetti imprevisti.
L’ideologia del protagonismo
Il problema delle arti narrative, sia nel cinema che nei romanzi, è proprio questo: sono inconsapevolmente ideologiche. Contengono due presupposti troppo intransigenti: e cioè, prima di tutto, che sia necessario avere un protagonista (possibilmente umano); e poi, che questo protagonista passi attraverso una svolta sorprendente, un avvenimento che non rientrava nei suoi progetti di vita.
Elmore Leonard, scrittore di noir statunitense, pochi anni prima di morire stilò un decalogo per scrivere della buona fiction: al primo posto (lo sottolineo: per lui era la regola numero uno) aveva messo il divieto di parlare del meteo: «Mai iniziare un libro parlando del tempo che fa. Se è solo per creare atmosfera, e non una reazione del personaggio alle condizioni climatiche, non andrai molto lontano. Il lettore è pronto a saltare le pagine per cercare le persone». Il decalogo di Leonard risale al 2010, quando non si parlava molto di Antropocene e di crisi climatica. Oggi suona involontariamente profetico.
La situazione meteorologica, che fino a pochi anni fa in un romanzo poteva sembrare uno stanco espediente per ambientare una storia, è diventata un tema politico cruciale. Ma come si fa a dire al protagonista in primo piano: «Scòstati, togliti di mezzo, che vogliamo vedere lo sfondo dietro di te»? E anche così, in quanti resteremmo a guardarlo, quello sfondo, con attenzione e sincero interesse?
Nel frattempo, la riflessione di studiosi e scrittori si è concentrata proprio su queste impasse. Oltre a Carla Benedetti, è stato Amitav Ghosh, nel saggio La grande cecità (Neri Pozza) a evidenziare la riluttanza dei romanzieri a raccontare le catastrofi naturali e climatiche. Come mai? Perché le trovano dozzinali dal punto di vista inventivo: troppo facile risolvere il destino dei protagonisti con un avvenimento esteriore, come un ciclone o un’alluvione. Il nostro animo preferisce sapere cosa succede ai desideri dei personaggi quando vengono messi alla prova dai fatti, come cambiano quando urtano addosso alla realtà: ma tutto questo deve restare all’interno delle relazioni sociali, dello scontro fra poteri umani.
La ginestra contro l’umanità
Il totem culturale italiano più ovvio per mettere in discussione questi presupposti è La ginestra di Giacomo Leopardi. Che infatti non è una storia, ma una poesia. C’è un poeta che si mette a contemplare le pendici di un vulcano ricoperte da una pianta fragile e ostinata. E a un certo punto sbotta nel suo celebre invito a unirsi fraternamente, tutti insieme contro la malvagità della Natura. Peccato che, con l’Antropocene e la crisi climatica, due secoli dopo abbiamo scoperto che dietro la malvagità della natura ci siamo noi, che molte di quelle catastrofi le causiamo. E quindi dovremmo fare fronte comune non tanto contro la natura, ma contro noi stessi.
Alla Mostra del Cinema c’era un film che sembrava l’esatto contrario del Buco di Frammartino: Freaks Out di Gabriele Mainetti. Anche in questo caso, non mi metto a recensirlo. Dico che mi sembra ideato per saziare la bulimia narrativa degli spettatori: i suoi sceneggiatori evidentemente pensano di avere a che fare con un pubblico che pretende un colpo di scena al minuto e rovesciamenti narrativi continui. È un cinema che ha un’idea antropologica degli spettatori come degli insofferenti fradici di noia, incapaci di fermarsi a considerare la nostra condizione sulla Terra.
E dunque, come può evolversi il nostro modo di pensare, se per ottenere un cambiamento di mentalità continuiamo a usare gli schemi narrativi che ci consegna una tradizione millenaria? Dovremmo smettere di raccontare storie, dato che per noi “storia” significa ancora “protagonista che vede messi alla prova i suoi progetti all’interno di un contesto di relazioni esclusivamente umane”? Dovremmo imparare a stare seduti sulle pendici dei vulcani, mettendoci a parlare con i cespugli di ginestre? Il compito dei narratori e delle narratrici di domani, nei libri e sugli schermi, sarà quello di rendere appassionante la noia?
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