- L’altro giorno, al primo spettacolo del primo giorno di programmazione in una sala da più di trecento posti del più famoso cinema di Milano, c’eravamo solo io e due anziane signore. È sufficiente come fotografia – in senso letterale: l’ho pure postata nelle stories di Instagram – dell’attuale stato del cinema nel nostro Paese.
- È guerra? Sì, no, forse. È di sicuro una nuova era, come dice il sottotitolo (altro simbolo) del nuovo Downton Abbey. Tra l’überprotezionismo dei francesi (15 mesi d’attesa per il passaggio dalla sala alla tv/piattaforma) e le proposte da sempre sui tavoli ministeriali (i 90 giorni promossi da Franceschini).
- La nuova era è arrivata. È come avere l’automobile e continuare a pensare di usare la carrozza? No, ma un po’ sì. Ogni piattaforma lavora a modo suo.
L’altro giorno, al primo spettacolo del primo giorno di programmazione in una sala da più di trecento posti del più famoso cinema di Milano, c’eravamo solo io e due anziane signore. È sufficiente come fotografia dell’attuale stato del cinema nel nostro paese. Ad aggiungere simbolismo al già fotografico simbolo vi è il fatto che eravamo a vedere, io e le due signore, un film che da solo ben sintetizza quanto e come è cambiata la filiera.
Anzi: quanto e come i passaggi dagli schermi piccoli e grandi (o viceversa), con tutto quello che comportano, siano in quest’epoca più che mai inevitabili. Downton Abbey II - Una nuova era, questo il film questione, è il secondo capitolo cinematografico di una serie (sempre Downton Abbey) partita su un canale privato inglese (Itv, che l’ha trasmessa tra il 2010 e il 2015), arrivata anche da noi sulla tv commerciale (la prima a mandarla in onda fu Rete 4) e poi finita su tutte le piattaforme o quasi (al momento è disponibile su Prime Video). Un giro della morte, o semplicemente del nuovo corso audiovisivo, che spiega già da solo molte cose.
Da Mission Impossible a Sex and the City, da Charlie’s Angels a X-Files, non si contano ovviamente i telefilm (così si chiamavano, meno nobilmente, una volta) diventati film tout court. Ma Downton Abbey costituisce un caso diverso. Downton Abbey è diventata (doppio) film nell’era in cui la serialità è più cool del cinema, stando almeno alla percezione collettiva. Una volta passare dal piccolo al grande schermo voleva dire essere accettati nel salotto buono; oggi non vale necessariamente il contrario, ma quantomeno è lecita la domanda che potrebbero farsi in parecchi: ha senso che un successo televisivo di tale portata (e per giunta nato nell’epoca della tv adulta, matura, delle serie e non dei telefilm, per capirci) diventi un film?
Un film che, al primo spettacolo del primo giorno di programmazione in una sala da più di trecento posti del più famoso cinema di Milano, finiscono per guardare soltanto due vecchie e uno scribacchino?
Qualche giorno fa, forse lo sapete, è stata pubblicata sul Corriere della Sera una lettera firmata Paolo Del Brocco (amministratore delegato di Rai Cinema) e Giampaolo Letta (amministratore delegato di Medusa Film) sull’attuale (eterno) stato del cinema nel nostro paese di cui dicevo, e sulle strategie per far passare la bonaccia. Perché di bonaccia, come al solito, si tratta: la fotografia di me con le vecchie è la stessa di centinaia di sale più o meno famose, più o meno cittadine, che vivono una crisi senza fine, cominciata ben prima della pandemia e della guerra e delle cavallette ogni volta addotte come scusa.
Ovviamente, sintetizzo, il nodo centrale del dibattito (anch’esso eterno) è la finestra per lo sfruttamento di un film andato al cinema su tv e piattaforme assortite. Ora, sintetizzo ancora, si fa un po’ come si vuole o quasi: avrete visto di recente su Prime Video un bottone “Anteprima Cinema” destinato a quei titoli usciti da poco, a volte pochissimo, nelle sale e già noleggiabili per lo streaming domestico. La frase di lancio, va detto incresciosa, dice già molto del periodo che viviamo: “Goditi i film del cinema dal comfort di casa tua”. Sottotesto: in sala mica si sta così bene.
Il passaggio
È guerra? Sì, no, forse. È di sicuro una nuova era, come dice il sottotitolo (altro simbolo) del nuovo Downton Abbey. Tra l’überprotezionismo dei francesi (15 mesi d’attesa per il passaggio dalla sala alla tv/piattaforma) e le proposte da sempre sui tavoli ministeriali (i 90 giorni promossi da Franceschini), i due ad dei due principali colossi della produzione/distribuzione nostrana propongono una via di mezzo: sei mesi. Che avrebbe pure senso, se attorno non fosse cambiato tutto.
Parlo non da esperto di numeri del settore, ma da osservatore molto vicino alla questione. Da scribacchino, ma pure da spettatore (pardon: da vecchia spettatrice). Parlo dopo aver visto Lady Violet (Maggie Smith) che non si fa una ragione dei cinematografari arrivati a Downton Abbey per girare un film (e che pagano un lauto affitto alla magione, così che la famiglia Crawley possa rifare i tetti ormai marciti: i nobili hanno sempre bisogno di soldi). Il passaggio c’è stato, lo vediamo tutti, e non solo in Downton Abbey. La nuova era è arrivata. È come avere l’automobile e continuare a pensare di usare la carrozza? No, ma un po’ sì. Ogni piattaforma lavora a modo suo.
Per parlare delle due principali: Amazon punta molto sull’acquisto e sulla distribuzione, in tempo pandemico l’ha fatto con molti film (e molti italiani: si veda il caso Si vive una volta sola di Carlo Verdone) che per ovvi motivi hanno dovuto rinunciare all’uscita in sala; Netflix, che non ha alle spalle i pacchi da spedire a casa, fa catalogo producendo soprattutto in proprio, e sfruttando la libertà che garantisce ai grandi autori, dal nostro Paolo Sorrentino a – nell’ormai ricchissimo carnet generale – Martin Scorsese, Jane Campion, David Fincher, Noah Baumbach, Alfonso Cuarón, il prossimo dei Big sarà Alejandro González Iñárritu. Autori che spesso escono anche in sala (e, è il caso di È stata la mano di Dio, le sale le riempiono pure) e non solo per ragioni d’immagine; anche se il grosso lo fa, ovviamente, il pubblico dal divano.
Di fronte a Netflix che perde abbonati e scricchiola in borsa, notizia di qualche settimana fa, c’è chi urla “È già la fine dello streaming!” e chi ci va più cauto, e dice che è per via della ripresa della vita post Covid, che porta finalmente molta gente fuori casa (ma non al cinema); che è colpa del rincaro degli abbonamenti che avrà scoraggiato qualcuno; o di quella bulimia generale da “contenuto”, come si dice oggi, che per assurdo costringe a scappare: se posso vedere tutto, allora non voglio vedere niente.
E allora, che fare? È sensato proporre, in quel dibattito che per l’appunto è eterno, quelle benedette finestre? Probabilmente sì, tenendo però conto del rischio che si corre in un’industria, come è la nostra, che non è solida come quella francese. Il loro überprotezionismo cui accennavo poc’anzi conduce talvolta a scelte antistoriche (l’esempio più evidente: il Festival di Cannes che rifiuta Netflix e gli altri e resta ripiegato su sé stesso, in una selezione che sembra immutabile dagli anni Novanta), ma è sorretto da un sistema solido, che non poggia solo sugli exploit di qualche titolo. Cosa che invece accade, di stagione in stagione, dalle nostre parti: alla commedia italiana ormai è rimasto solo Checco Zalone, per il resto – vedi l’annata in corso – bisogna sperare nelle solite uscite Disney/Marvel, nel Batman di turno, forse, lo vedremo a fine mese, nel ritorno di Top Gun. Che si farà non lo so, è un periodo così difficile che è tutto giusto e tutto sbagliato.
È giusto borbottare per la troupe che t’invade casa, ma è anche giusto accoglierla, se può portare qualcosa di buono. So solo che io in sala con le due vecchie ancora ci andrò. Senza usare la carrozza.
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