- La sfortuna dell’educazione civica nella sezione F del liceo d’Azeglio di quegli anni, come in tante altre sezioni di liceo, si doveva anche al fatto che c’era il voto di storia e c’era il voto di filosofia, ma il voto di educazione civica non c’era.
- Così, pillole di questa materia fantasma ci venivano elargite senz’ordine soprattutto in occasione di disastri e sciagure, o in caso di elezioni e consultazioni pubbliche, anche solo per giustificare la chiusura delle scuole.
- Insomma, era tutto un po’ casuale. E non che il caso e l’improvvisazione siano sempre un male; ma casuale alla fine significa “affidato alla coscienza e alla competenza degli insegnanti”, e non sempre questa scommessa paga.
È in libreria dal 21 settembre per Rizzoli il saggio di Claudio Giunta: «Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?» L’educazione civica, la scuola, l’Italia. Eccone un estratto.
La legge 92 del 20 agosto 2019 ha reintrodotto l’educazione civica in tutte le classi di tutte le scuole italiane, ma naturalmente l’educazione civica a scuola c’era già, anche prima della Legge 92.
Più di trent’anni fa, al liceo “Massimo d’Azeglio” di Torino, l’educazione civica ce la insegnava il professore di storia e filosofia, un uomo colto, destrorso, col pallino del cristianesimo primitivo e delle eresie manichee (il collegamento tra l’essere destrorso e la devozione a Mani non eravamo ancora abbastanza scaltriti per farlo).
Ho detto ce la insegnava ma in realtà sarebbe più giusto dire che avrebbe dovuto insegnarcela, perché per una serie di circostanze (la principale delle quali era l’overdose di lezioni sulle eresie manichee) i libri di educazione civica non vennero mai aperti, e a distanza di tanti anni sono ancora qui, intonsi, su uno scaffale della mia libreria.
Si tratta di Introduzione alla Costituzione di A. Baldassarre e C. Mezzanotte (Laterza, 1987) e di N. Bobbio, C. Offe, S. Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze (Il Mulino, 1981), e il fatto che io trovi questi libri alquanto ostici ancora adesso è sufficiente a riportarci a un mondo felice nel quale tutte le ubbie egualitarie oggi imperversanti non avevano ancora turbato il sereno tran tran della scuola di classe: i tre o quattro bravi che capivano, capivano, e gli altri venti sticazzi.
Materia fantasma
Battute a parte, la sfortuna dell’educazione civica nella sezione F del liceo d’Azeglio di quegli anni, come in tante altre sezioni di liceo, si doveva anche al fatto che c’era il voto di storia e c’era il voto di filosofia, ma il voto di educazione civica non c’era. Il decreto del presidente della Repubblica che aveva introdotto per la prima volta l’educazione civica a scuola nel 1958 (presidente del Consiglio Adone Zoli, ministro della Pubblica istruzione Aldo Moro) prescriveva che i programmi di storia venissero integrati dal programma di educazione civica, ma a questa nuova disciplina non dava una cattedra: ci avrebbe pensato l’insegnante di storia, e il dpr spiegava perché con una formulazione chiara, anche se opinabile: «È la storia infatti – si legge nel dpr – che ha dialogo più naturale, e perciò più diretto con l’educazione civica, essendo a questa concentrica».
E come non c’era una cattedra così non c’era né un monte-ore dignitoso (due ore al mese) né soprattutto un voto che facesse media, mentre a scuola il voto è il motore di tutto, senza voto non si è niente e nessuno. Bref, nelle ore di storia e filosofia, Mani permettendo, si studiavano la storia e la filosofia, che del resto contemplavano già, come ancora contemplano, programmi sesquipedali, dagli Ittiti ai giorni nostri, da Anassimandro a Derrida, programmi che nessun insegnante e nessuna classe era in grado di svolgere decentemente, col risultato ben noto che ad aprile-maggio dell’ultimo anno si arrivava a parlare del tardo Ottocento, del primo Novecento al massimo, obliterando proprio quelle epoche che avrebbero potuto fornire l’occasione per approfondire contenuti legati alla vita associata, alla struttura dello stato italiano, ai diritti e ai doveri del cittadino.
Problema annoso, se l’aveva già posto pochi anni dopo la guerra Aldo Capitini proprio parlando dell’insegnamento di educazione civica, e del suo nesso necessario con la storia contemporanea: «La mancata immissione nella scuola italiana di una larga informazione sugli ultimi decenni della nostra storia, sui relativi problemi, sulla Costituzione, resta una delle più gravi insufficienze dell’istruzione statale dal 1948 al 1958 […]. Gli scolari (è stato detto) dovevano sapere chi era Porsenna, ma non chi era Hitler». Ma ciò, osservava Capitini, li rende «estranei proprio a ciò che si connette con la loro vita in atto, con i discorsi che ascoltano» (L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale, a cura di Aldo Capitini, Bari, Laterza 1984, pp. 106-7).
Così, pillole di questa materia fantasma ci venivano elargite senz’ordine soprattutto in occasione di disastri e sciagure (la cui risonanza, in quei tempi pre-internet, era comunque infinitamente meno vasta di oggi, e sollecitava una quantità infinitamente inferiore di chiacchiere), o in caso di elezioni e consultazioni pubbliche, anche solo per giustificare la chiusura delle scuole.
Insegnamenti casuali
Scoppia la centrale nucleare di Černobyl’? Si spulciava La Stampa per capire che cosa fosse successo e che cosa stesse per succedere; l’insegnante di scienze cercava di dare qualche rudimento sulla fusione nucleare; ma soprattutto, nelle ore di lettere, che erano tante, si leggevano e scrivevano rant appassionati contro l’inquinamento, l’industria e la modernizzazione che stava assassinando gli ortaggi a foglia larga.
«Sviluppo senza progresso», citava l’insegnante, confortando quelli di noi che già allora si trovavano a disagio nel turbine della vita contemporanea, cioè gli intellettuali in erba. Viene indetto un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati? L’insegnante volenteroso spiegava il significato di “referendum abrogativo”, lo distingueva alla meno peggio dal referendum istituzionale del 1946, parlava astrattamente degli errori giudiziari, o più concretamente dell’orrore della carcerazione preventiva, o più concretamente ancora dello scempio del caso-Tortora.
Insomma, era tutto un po’ casuale. E non che il caso e l’improvvisazione siano sempre un male, spesso s’impara di più attraverso questi obiter dicta che attraverso moduli e “percorsi” sempre un po’ sovradimensionati rispetto al tempo-scuola e alle capacità degli studenti; ma casuale alla fine significa “affidato alla coscienza e alla competenza degli insegnanti”, e non sempre questa scommessa paga, anche perché non si può essere competenti in tutto, ci si laurea in una materia e quella si conosce, ossia si conosce una zona, una porzione di quella: si sa che il velleitarismo può essere peggiore dell’ignoranza, che almeno conosce i suoi limiti.
Claudio Giunta è autore del saggio «Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?» L’educazione civica, la scuola, l’Italia, edito da Rizzoli e in libreria dal 21 settembre
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