- Coffee for two: ogni lunedì un nuovo episodio del podcast di Giorgia e Gianrico Carofiglio, una figlia, un padre, un tema, senza filtri. Solo sul sito di Domani.
- «Parlare mi riesce facile. Non voglio somministrare a nessuno complesse interpretazioni psicologiche di questa preferenza, anche perché io stesso ho le idee poco chiare sul punto».
- «È stata una lunga jam session in cui ognuno ha fatto le sue improvvisazioni senza invadere lo spazio dell’altra/o».
Per Thomas Mann «scrittore è colui a cui scrivere riesce più difficile che a tutte le altre persone». Un’opinione che condivido in pieno. Taluni autori dichiarano di trarre piacere dall’atto della scrittura; per questi autori le parole sgorgano e fluiscono spontanee, buone al primo colpo, già pronte per la stampa e i lettori.
A prima vista parrebbe un privilegio. Altri autori – io, fra questi - vivono invece la scrittura come un’esperienza penosa: fatica, senso di inadeguatezza, frustrazione, continuo impulso di fuga. Non c’è nulla di spontaneo nel processo: scrivere è duro lavoro alla ricerca delle parole precise per (cercare di) dire la verità.
Naturalmente, quando si parla di letteratura, verità non significa raccontare fatti realmente accaduti. Significa piuttosto concepire testi veritieri su quel pezzo di condizione umana che si è deciso di raccontare. Compito della letteratura è dire la verità con lo strumento della finzione, laddove finzione (intesa come creazione, rappresentazione, invenzione) è categoria assai diversa, in qualche modo antitetica, rispetto a falsità.
Una delle più efficaci enunciazioni di questo concetto la troviamo nella premessa al romanzo La schiuma dei giorni di Boris Vian: «la storia è interamente vera, perché me la sono inventata da capo a piedi». Si possono scrivere cose realistiche dicendo falsità, come accade in maniera sistematica nella narrativa scadente e si possono scrivere racconti privi di qualsiasi realismo che dicano verità profonde sulla condizione umana. Tentare di dire la verità, riesca o non riesca il tentativo, costa molta fatica e non è piacevole.
Una lunga jam session
Almeno per quanto mi riguarda, scrivere è molto difficile. Parlare invece mi riesce facile. Non voglio somministrare a nessuno complesse interpretazioni psicologiche di questa preferenza, anche perché io stesso ho le idee poco chiare sul punto.
Certo è che esplorare a voce un argomento, possibilmente con un interlocutore capace di interloquire (il dettaglio non è scontato) mi è sempre parso divertente e molto meno pericoloso della scrittura. Verba volant in fondo è la premessa implicita, piuttosto superficiale a dire il vero, di questa preferenza.
Quando è venuta fuori l’idea di una serie di chiacchierate con una interlocutrice molto (in qualche caso, troppo) capace di interloquire – mia figlia Giorgia – ho pensato subito che fosse una buona idea. Con un pizzico di imprudenza, sperando di non dovermi pentire, per molte ragioni. Non è accaduto: non mi sono pentito e, credo, nemmeno lei. Invece ci siamo divertiti.
Non abbiamo litigato, abbiamo scoperto nuovi spunti, ci siamo riconosciuti con una lievità inedita e inattesa. È stata una lunga jam session in cui ognuno ha fatto le sue improvvisazioni senza invadere lo spazio dell’altra/o. La musica che ne è venuta fuori ci sembra una combinazione riuscita di accordi e dissonanze. Speriamo che a voi piaccia ascoltarla almeno la metà di quanto noi ci siamo divertiti a suonarla.
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