- Donatella Di Cesare scrive a Paolo D’Angelo, che su Domani aveva criticato il suo recente “Il tempo della rivolta”, nel quale – secondo il filosofo – «tesse l’elogio di tutte le rivolte, senza differenziarle tra loro e senza dare indicazioni sul mondo che dovrebbe scaturirne».
- L’ accusa di stalinismo è un modo per evitare di approfondire i problemi del nostro tempo. Come si fa a non criticare la democrazia liberale e le disuguaglianze che ha prodotto? Io continuo a lottare per un altro mondo.
- Ho scritto centinaia di pagine su questo tema delicato e insieme emblematico. Ricordo soltanto il mio libro Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri del 2014. Trovo grossolano e, in fondo, comodo parlare di «folclore strapaesano». Si liquida così la faccenda, senza minimamente approfondirla.
Vorrei cominciare dalla vignetta ironica ed efficace: Heidegger che fa l’occhiolino alla maschera di Anonymous. È l’unica parte che salverei di una pagina altrimenti scandita – in modo incomprensibile e imbarazzante – da toni offensivi e derisori, affronti ostili e livorosi, giudizi infondati che non invitano certo alla discussione.
Desidero anzitutto ribadire che credo nell’impegno pubblico della filosofia. Perciò non è mai esistita cesura tra la mia riflessione e i miei interventi. Ho per così dire “abbandonato gli innocui studi”, ben prima, già quando, nel 2012, ho pubblicato il libro Se Auschwitz è nulla, denunciando il negazionismo. Per le minacce che ho ricevuto da gruppi fascisti e neonazisti ho dovuto vivere per tre anni sotto scorta. Ho poi scritto il libro Tortura che ha contribuito alla legge volta a riconoscere finalmente la tortura come reato. E l’anno successivo ho pubblicato la vela Einaudi intitolata Terrore e modernità. Questo per dire che la violenza, sotto i suoi molteplici aspetti, è stato tema della mia riflessione – ma anche della mia denuncia. Farmi passare per una facinorosa è francamente un tentativo farsesco.
Il tempo della rivolta è strettamente legato al libro Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione. Ritengo che rivolta e migrazione siano due fenomeni correlati. Siamo abituati a vivere in un ordine statocentrico, dove la politica è limitata ai confini dello Stato. Osserviamo tutto quello che avviene entro questa prospettiva, giudichiamo da cittadini sovrani. Come se lo Stato non fosse un dato storico, come se la nazione, basata sulla nascita, non fosse una pericolosa finzione che porta al primato etnico del “noi” contro gli altri. Ciò ha prodotto una dicotomia tra dentro e fuori, che è anche un giudizio di valore. Il paesaggio oltreconfine si va tuttavia popolando di nuovi fenomeni, come le migrazioni, che hanno una carica sovversiva già solo perché, mentre smascherano la discriminazione dello Stato, che segna la barriera tra cittadini e stranieri, ne sfidano la sovranità. Interpreto quel che avviene come uno scontro epocale tra lo Stato e i migranti, dove spesso, come cittadini, siamo spinti a essere complici per salvaguardare i nostri privilegi respingendo l’umanità “superflua” e le “scorie” della globalizzazione.
Allo stesso modo la rivolta dischiude uno squarcio, apre uno spiraglio. Ho scritto: “La rivolta mostra lo Stato dalla finestra dei quartieri periferici, lo fa vedere con gli occhi di chi è lasciato fuori o di chi si chiama fuori. Si capisce perché la politica statuale, coadiuvata dal racconto mediatico, punti a renderla oscura e marginale”. Proprio questo è il punto: l’immagine che viene offerta è quella di un evento caotico e indecifrabile. Di qui la scarsezza di riflessioni. Potremmo accontentarci di dire che qui e là ci sono rivolte – senza prenderle come articolazioni di un fenomeno globale.
Il che significherebbe sancire che tutto è a posto. A differenza della percezione superficiale di D’Angelo, credo che la rivolta sia un fenomeno non marginale, bensì dei margini, che va finalmente considerato nella sua rilevanza politica. Parlo di “costellazione” con Benjamin, ma avrei potuto parlare di “somiglianza di famiglia” con Wittgenstein, per indicare i nessi complicati, le affinità mobili, le corrispondenze imponderabili tra le varie rivolte. Mi riconosco in quella filosofia che ci ha insegnato – già con Nietzsche – che al concetto non corrisponde una fantomatica identità statica. Ma chi ha letto il libro sa che dedico molte pagine al concetto di “rivolta”, anzi perfino all’etimologia di questa parola, tutta italiana, emigrata poi in altre lingue. Rivoltarsi allude al voltafaccia e significa cambiare parte, sottrarsi all’obbedienza, sfuggire al comando. Un afflato anarchico permea da subito la rivolta, un indizio che non va dimenticato quando si guarda al paesaggio contemporaneo.
Il mio libro insiste molto sullo “spazio pubblico” nel modo in cui l’ha delineato Hannah Arendt. Ma seguo anche la traccia di Judith Butler. Chi entra in quello spazio? Chi ha diritto di “apparire”? Di prendere la parola? Forse non è un caso che a chiederselo siano delle donne filosofe. Mi interessa lo spazio pubblico come architettura politica. La rivolta convenzionale si compie nelle forme istituite, la rivolta an-archica mette in crisi l’architettura stessa della politica. Perciò mi sono soffermata sulla disobbedienza civile che, riconosciuta dopo Eichmann come valore portante, è stata poi molto addomesticata, ridotta a un atto di coscienza che fa appello al governo.
La novità è oggi rappresentata dai “nuovi disobbedienti”, come li ho chiamati, la cui rivolta politica mette in discussione il limite fra dentro e fuori. Sono gli attivisti informatici, che lanciano segnali d’allerta, i militanti zadisti, che tentano di elaborare nuovi modi abitare, tutti coloro che operano nelle Ong, che assistono i profughi nei campi, che aiutano i migranti, muovendosi negli spazi transfrontalieri. Lo Stato criminalizza il dissenso, depoliticizza il conflitto: chi si impegna a salvare vite umane sarebbe colpevole di dannarle. Ma dove la difesa dei diritti umani è considerata eversione, la democrazia rischia il tracollo.
La questione della rivolta tocca, dunque, quella del potere, che è sempre più sfuggente e ubiquo, proiettato sui canali della tecnica e sui flussi dell’economia – non ha volto, non ha nome, non ha indirizzo. E non per questo è meno violento. Lo scontro di piazza è spesso la ricerca di un faccia a faccia. Nel mio libro ho proposto una decostruzione del nemico e indicato la via di quello “spirito destituente” che è il tratto distintivo delle nuove rivolte.
Al contrario, D’Angelo mi ascrive fantomatici nemici, mi attribuisce una frase che compendia invece la mia critica a Camus, ripiegato sulla protesta del singolo: «se la rivolta è pura, intrattabile, rinuncia al potere, si consegna all’impotenza». Non contento, dopo aver gridato al pericolo dell’anarchia, D’Angelo mi dà della stalinista. Qualcosa non torna? Insulta o inganna l’intelligenza dei lettori? Certo, più volte ho criticato la tesi dei “due totalitarismi”, diventata rapidamente un blocco concettuale che scredita in anticipo ogni alternativa. Non si può ridurre l’ideale comunista di giustizia, che ha ispirato donne e uomini, allo stalinismo, né tanto meno paragonarlo con il nazismo. La corruzione del progetto non è il progetto. Il totalitarismo nazista è stato la perversione progettuale portata a compimento.
Disuguaglianze abissali, principio esteso dell’indebitamento, degradazione irreversibile dell’ambiente, incognite dell’accelerazione tecnica – come si può non essere critici verso la democrazia liberale? Verso una politica che si limita a gestire l’emergenza sul dettato dei mercati, ad essere governance amministrativo-poliziesca, senza una visione? D’Angelo si fa invece propugnatore del neoliberalismo. Buon per lui. Negli anni Settanta, che restano inscritti nel mio modo di pensare e di agire, io ero in quel movimento che ha lottato perché un altro mondo fosse possibile. E lotto ancora. Rivendico l’utopia e la capacità di guardare oltre – oltre l’orizzonte del capitalismo. Guardo a una “vera democrazia” che, per dirla con Spinoza, sappia riscoprire i valori del mutuo impegno e dell’uguaglianza.
Questo emerge anche nel libro, a cui tengo molto, Sulla vocazione politica della filosofia, una mia riflessione e un mio manifesto dove sostengo che è tempo che la filosofia torni nella città. Tanto più, dopo il grande trauma rappresentato, nel Novecento, da Heidegger. Ho scritto centinaia di pagine su questo tema delicato e insieme emblematico. Ricordo soltanto il mio libro Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri del 2014. Trovo grossolano e, in fondo, comodo parlare di “folclore strapaesano”. Si liquida così la faccenda, senza minimamente approfondirla. Resta il fatto che Heidegger ci ha insegnato, fra l’altro, che abitare è un sinonimo di essere, non di avere, e ci ha mostrato la spaesatezza di ciascuno nell’esilio planetario. Ho cercato di pensare, a partire da qui, la figura dello straniero residente, che abita nel solco della separazione dalla terra, proponendo di rivedere la cittadinanza al cui interno va incisa l’ospitalità.
Zeitraum – Zeit-traum non è un mio errore, bensì quel gioco ermeneutico, suggerito dallo stesso Benjamin, e ripreso da altri interpreti, per i passages, quelle gallerie commerciali, tempio delle merci, dove emerge che il capitalismo avanzato non è solo un “lasso di tempo” Zeitraum, ma anche un “tempo di sogno”, Zeit-traum che intorpidisce e rende sonnambuli.
Sorprende che all’estetologo D’Angelo sia sfuggito questo motivo basato sulle potenzialità morfologiche della lingua tedesca. E imbarazza il suo attacco, segno di un degrado che non si ferma alla politica, ma tocca ormai la cultura. Ho risposto in coerenza con il mio impegno per cui, da filosofa, non intendo abbandonare lo spazio pubblico.
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