Quest’anno il dibattito sulla restituzione delle sculture di Fidia alla Grecia è diventato ancora più acceso. Per Edith Hall, grecista e membro del British Committee for the reunification of the Parhenon marbles, le sculture «saranno restituite», ma non si spalancheranno le porte di tutti i musei occidentali
«È come pensare di avere metà del Colosseo in un altro paese». È questo l’esempio che Edith Hall, una delle più note greciste del Regno Unito, professoressa all’università di Durham, usa per parlare dei marmi del Partenone, conservati al British Museum di Londra, dove li portò tra il 1801 e il 1812 Thomas Bruce di Elgin.
Da decenni la Grecia chiede la restituzione delle sculture di Fidia, che decoravano il tempio del V secolo a.C. nell’acropoli di Atene, simbolo dell’epoca di massima gloria di quella che oggi è la capitale ellenica.
L’ultimissimo capitolo di questa disputa (lo sgarbo di Rishi Sunak, che si è rifiutato di incontrare il premier greco in visita nel Regno Unito, dopo una poco gradita intervista sull’argomento) è di qualche settimana fa: sul tema è tornata mercoledì 27 dicembre anche la ministra della Cultura della Repubblica Ellenica, Lina Mendoni, che parlando al Guardian ha detto che «qualora le sculture dovessero essere riportate ad Atene, la Grecia sarebbe pronta a organizzare mostre a rotazione di importanti antichità che riempirebbero il vuoto» lasciato nel museo londinese.
Oggi però tutta il dibattito si inserisce in un contesto in cui il tema della decolonizzazione è diventato molto più dibattuto, e non solo come problema per i musei: la questione attraversa in maniera trasversale gli studi classici.
Professoressa Hall, lei è parte del British Committee for the reunification of the Parhenon marbles. Quanto sono significativi gli ultimi sviluppi sulla disputa tra Grecia e Regno Unito per le sculture di Fidia che oggi sono conservate al British Museum?
Il nostro primo ministro Rishi Sunak di recente si è rifiutato di incontrare Kyriakos Mitsotakis dopo che il premier greco è andato in tv e ha detto che il fatto che le sculture greche siano al British Museum è come se la Gioconda fosse tagliata a metà.
Secondo me non è nemmeno abbastanza forte come affermazione: il fatto che non siano ad Atene rende il Partenone letteralmente sventrato. Comunque, Sunak ha fatto un autogol: per giorni la questione è stata sui giornali, ho sentito la gente che ne parlava in treno. L’opinione pubblica britannica è diventata nettamente favorevole alla restituzione dei marmi, dopo essere stata contraria per anni.
Quindi ora l’ipotesi di una restituzione sembra più realistica?
Penso di sì, che verranno restituiti. Non subito, tra 20 o 25 anni. Keir Starmer, il leader del Labour, avanti nei sondaggi, si è detto aperto a discutere di un prestito, che è la posizione più aperturista di sempre. La legge attualmente non permette la restituzione, bisognerebbe cambiarla, ma già un prestito permanente sarebbe importante.
Ma una restituzione dei marmi sarebbe un caso particolare? O lo stesso principio dovrebbe essere applicato alla maggior parte delle collezioni dei musei europei?
Non penso che si spalancherebbero le porte di tutti i musei, e non credo nemmeno che sia giusto restituire tutto: non credo che dovremmo ridare manufatti e opere d’arte dall’antica Mesopotamia a paesi che sono in guerra, dove quegli oggetti non sarebbero al sicuro.
In generale, credo che sì, il caso delle sculture del Partenone sia diverso: si tratta di un’opera altamente simbolica. Sarebbe come pensare di avere metà del Colosseo in un altro paese. E soprattutto, non è possibile sostenere che in questo momento stiano meglio al British Museum: il nuovo museo dell’Acropoli è molto più adatto, sia a livello estetico che pratico, ad accogliere le sculture di Fidia, ha delle strutture pensate apposta per preservarle nell’ambiente migliore possibile.
Ma la seconda parte della mia risposta è che sì, penso che tutto ciò che può essere rimpatriato in maniera sicura debba essere rimpatriato. Il British Museum, il Louvre, il Pergamonmuseum, i musei vaticani: sono tutti frutto di una vecchia ideologia imperialista. Credo poi che non farebbe male a tutti questi musei immaginare nuovi tipi di installazioni, con proiezioni e realtà aumentata, che probabilmente sarebbero molto più apprezzate.
Nel mondo accademico, gli studi classici sono attraversati da dibattito e polemiche su temi come la “decolonizzazione” di questa materia e la cancel culture. Cosa ne pensa?
Gli studi classici stanno attraversando una crisi e il tema delle eredità “scomode” nell’insegnamento di queste materie deve certamente essere affrontato. È uno dei motivi per cui penso che sia così importante studiare in maniera approfondita la ricezione dei testi e della cultura antica, come sono stati usati nelle diverse fasi storiche, da bandiere per battaglie di liberazione all’uso strumentale che invece ne hanno fatto dittatori come Mussolini e Hitler.
Ci sono alcuni, soprattutto negli Stati Uniti, che in nome dell’idea di decolonize classics e di rimuovere queste eredità in sostanza vogliono distruggere i dipartimenti di studi classici come entità, spacchettare tutto e redistribuirlo tra antropologia, letteratura, storia eccetera. Piuttosto bisogna andare nella direzione in cui stanno andando le università inglesi: integrare sempre di più lo studio di greci e romani con quello di tutte le altre popolazioni antiche con cui si sono dovuti relazionare. Nel dipartimento dove insegno io è così, io insegno Gilgamesh insieme all’Odissea. In questo senso, piuttosto che smantellare i dipartimenti credo che dovremmo cambiare il loro nome: classics è legato alla parola classe, ha un retaggio intrinsecamente classista. Sarebbe meglio parlare di “antichità”.
Il dibattito si estende anche a questioni legate alle nostre sensibilità moderne, a come si affrontano i temi controversi e le rappresentazioni per noi violente, sessiste o razziste che emergono da quei testi e che per alcuni rendono i classici “problematici”.
Al contrario, per me sono un ottimo modo di affrontare ogni tipo di argomento sensibile: essendo così lontani da noi nel tempo riportano anche i dibattiti caldi a una dimensione in cui tutti possono ragionare e riflettere liberamente. A prescindere dal loro retaggio culturale, che siano ebrei, cristiani o musulmani, per tutti i miei studenti è più facile e liberatorio discutere per esempio di omosessualità o questioni di genere se sono legate al mondo antico.
Uno dei temi su cui ci sono state più polemiche è stato proprio quello della rappresentazione della violenza di genere e dello stupro nei testi antichi, per esempio con il caso degli studenti che chiedevano trigger warning per le Metamorfosi di Ovidio.
Anche in questo caso credo che in realtà i classici ci offrano un’opportunità. Posto che se nelle mie lezioni devo leggere un brano che parla di stupro e di violenza avviso sempre prima i miei studenti e che mi sembra una pratica del tutto appropriata, anche su questi temi i testi antichi ci offrono la possibilità di ricostruire un’eziologia di fenomeni culturali complessi, un’eziologia della violenza di genere e dell’abuso.
Bisogna saperli leggere con senso critico: anche in questo caso la chiave sta nella ricezione, nello studiare questi testi in maniera critica. Lo stesso vale per l’arte: le gallerie d’arte sono piene di opere che rappresentano la violenza in maniera che la snatura e la rende esteticamente piacevole. Ma se non riconosciamo questo meccanismo e non ne parliamo esplicitamente continuerà ad agire su di noi.
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