Paralimpico è bello, strepitoso, coinvolgente. Ci entusiasmiamo per i nostri campioni, ci specchiamo orgogliosi nel medagliere di Parigi, nella stessa piscina, a distanza di un pugno di giorni, i vari Carlotta Gilli, Stefano Raimondi e Simone Barlaam replicano i trionfi di Thomas Ceccon e Nicolò Martinenghi. In una Defense Arena piena come allora, tutto esaurito replicato in molti impianti. Ma c’è anche dell’altro: una straordinaria capacità comunicativa dell’atleta paralimpico, si pensi all’avvolgente slang romanesco del discobolo Rigivan Ganeshamoorthy, alla sua capacità di arrivare al cuore delle persone, prima di tutte a quelle che sono a casa e che cominciano a chiedersi: «Ma allora si può fare?».

Un po’ quello che accadde anche tre anni fa a Tokyo, quando la cartolina della tripletta azzurra nei 100 metri della categoria amputate – Ambra Sabatini oro, Martina Caironi argento e Monica Contrafatto bronzo – scatenò un effetto promozionale mai visto con tante telefonate, mail, contatti, tutti dello stesso tenore: «Mio figlio ha la stessa disabilità, ma può correre anche lui?».

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Rispetto a Tokyo, però, ci sono questi impianti pieni che fanno tanto pensare alla Londra di 12 anni fa, forse il bivio che ha portato le Paralimpiadi a un livello che non era mai stato raggiunto, tutto sotto la bandiera del fortunatissimo slogan di quei giorni, Inspire a generation. Anche l’Italia fu ispirata grazie a tanti protagonisti guidati d Alex Zanardi e quando al Quirinale andò in scena la festa delle medaglie con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la popolarità dell’ex pilota riuscì quasi a surclassare quella di diversi colleghi olimpici.

Tante cose sono cambiate da allora, in Italia e altrove, ma con la crescita dirompente del movimento si sono moltiplicate anche le domande. Perché le Paralimpiadi sono ormai qualcosa di molto più grande. E allora ci si chiede: come raccontarle? Come coniugare l’aspirazione all’eguaglianza della cronaca, a essere trattati come tutti gli altri con l’inevitabile desiderio di entrare dentro il percorso umano di quegli atleti, con le loro difficoltà, il loro viaggio molto spesso dal buio alla luce, il ruolo di ambasciatori del loro mondo? E ancora, questa crescita fin dove si arrampicherà? Arriverà una fusione/incontro/confronto con il mondo olimpico? Una domanda che somiglia a un’arma a doppio taglio: il riconoscimento di una grandezza, il rischio di una competizione fra eventi impari.

Di certo, il movimento paralimpico è entrato in un’altra sfera. I tempi mitici del professor Ludwig Guttman, l’inventore delle Paralimpiadi nell’enclave di Stoke Mandeville, a due passi da Londra, alla fine degli anni ’40, ma anche – per parlare di noi – della traduzione italiana di quell’intuizione con il lavoro del professor Antonio Maglio (ricordate la recente fiction A muso duro?), appartengono a un’altra epoca. Eppure non è tutta crescita quel che luccica. «Secondo me, l’idea di una fusione è sbagliata, porterebbe a uno schiacciamento dell’avvenimento paralimpico». Così ci spiega Carlo Di Giusto, un chilometrico curriculum come giocatore e come tecnico, reduce dall’esperienza di c.t. della nazionale di basket in carrozzina che ha sfiorato la qualificazione alla Paralimpiadi. «Il rischio è un po’ quello di spettacolarizzare troppo. Per dire, inizialmente, questo tipo di manifestazione era soprattutto degli atleti in carrozzina, oggi una piccola minoranza nel programma. A vedere certe gare in piscina, se escludi il momento del tuffo, quasi non noti la differenza con gli atleti olimpici. Tutto questo è fantastico, ma bisogna sempre ricordare il valore sociale dell’attività paralimpica: io ho quasi 70 anni, per persone come me lo sport ha significato al di là dei risultati la possibilità di fare un percorso che ha migliorato la mia vita. E questa è la cosa più importante».

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La lingua

In qualche modo, pure il vocabolario ha preso atto di questa rivoluzione culturale. La struttura che organizza lo sport per persone con disabilità inizialmente si chiamava federazione per gli sport handicappati. Poi diventò federazione italiana disabili, quindi arrivò all’attuale denominazione di Comitato Italiano Paralimpico. Ma, lo dice ora anche la Treccani, paralimpico non è più soltanto chi partecipa alle Olimpiadi, quindi un agonista al massimo livello, ma chiunque svolga un’attività sportiva, anche quella sotto casa. Questa espansione, questa rivoluzione, è come però un cristallo che può rischiare di rompersi.

«Io sono molto favorevole all’incontro fra il mondo olimpico e quello paralimpico – ci spiega Laura Coccia, deputata per una legislatura dopo essere stata primatista italiana di alcune specialità della velocità paralimpica – ma una fusione non può significare una somma che escluda i più fragili, i più deboli, insomma le persone delle categorie con una disabilità più grave. Questo sarebbe profondamente sbagliato. In Italia, a partire da Londra, abbiamo assistito a un cambiamento formidabile, ci sono però alcune situazioni su cui dobbiamo fare dei passi in avanti. Vedo che il paralimpismo fatica per esempio a coinvolgere le persone disabili dalla nascita, spesso si tratta di un percorso che ricomincia dopo un momento in cui è cambiata la tua vita, facevi attività agonistica prima e poi, in contesti diversi, ritrovi questa possibilità. Un’altra cosa che mi colpisce: della squadra italiana a Parigi fanno parte otto atleti cerebrolesi, in quella australiana ce ne sono 30. Quello che voglio dire è che ci sono ancora tante persone che possono essere coinvolte e ampliare la platea di questo mondo». 

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Il tema dell’integrazione

Ecco, l’altro punto è come gestire questo ampliamento. Ci sono tante persone con disabilità, per esempio quella intellettiva, che rivendicano il loro diritto a praticare lo sport e in qualche caso persino a conquistare un palcoscenico agonistico in cui realizzarsi. Il tema sarà quello di poter gestire questa apertura. Che significa una proliferazione associativa pazzesca, ma anche costumi, caschi, ausili, risorse da trovare. Un compito difficile ma ambizioso per il Comitato Paralimpico diretto da Luca Pancalli. «È un processo inarrestabile – dice ancora Di Giusto – Quando io cominciai, le discipline sportive che poteva praticare un ragazzo con disabilità erano pochissime. Ora c’è stato un decollo della domanda, ma anche dell’offerta e praticamente ogni sport offre questa possibilità».

Sullo sfondo torna il tema dell’integrazione fra olimpismo e paralimpismo. Non è un mistero che per i prossimi appuntamenti di Los Angeles 2028 la suggestione di un incontro, ancora limitato, parziale, ridotto magari a un solo evento, sia all’ordine del giorno dei due mondi. Si era anche parlato, lo si fece un anno fa, di una gara “mista”, per esempio nel sitting volley. Una possibilità sulla cui fattibilità sono molti gli scettici, diversi dirigenti paralimpici compresi. In ogni caso, la rivoluzione continuerà. Non solo in questi giorni. Ma nella quotidianità, nell’idea che tante persone fino a ieri lontanissime dall’idea di sport, abbiano tutto il diritto di dire: questa parola è anche nostra e vogliamo che faccia parte della nostra vita.

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