Tra fasi di stanca e ricerca della sostenibilità economica, abbiamo chiesto ad alcuni autori qual è lo stato delle newsletter italiane in questo momento
Nel mondo di internet, le newsletter esistono praticamente da sempre. Servivano alle aziende per comunicare via posta elettronica con gli iscritti — un po’ bollettino, un po’ Postalmarket — ma un certo punto ci siamo accorti che potevamo sfruttarle per informare o intrattenere: fare come coi blog, ma con le email al posto degli articoli.
In Italia, nel 2019, l’offerta era già in crescita: c’erano i primi successi “solisti” di Francesco Costa, il caos gioioso di Link Molto Belli, titoli sull’arte, sui libri, sul digital marketing. Lanciai Zio, una newsletter su Generazione Z e cultura digitale, su una piattaforma che permetteva di distribuire i miei pezzi e richiedere un supporto economico: Substack. Negli Stati Uniti, in quel momento, era la nuova “cosa”.
Animati dalla possibilità di poter finanziare autonomamente il proprio lavoro, tra il 2019 e il 2022 diversi autori in giro per il mondo lasceranno le testate tradizionali per aprire delle newsletter. Substack si riempirà di firme, e qualcuno comincerà a parlare di “futuro del giornalismo” – l’ennesimo, dopo l’ossessione per i video, gli articoli con le liste o le immagini su Instagram con le notizie colorate.
Arrivati a fine 2023, però, questo “futuro” tarda a manifestarsi. E sebbene progetti vecchi e nuovi continuino a farsi notare, il settore pare attraversare una fase indecifrabile: una specie di newsletter fatigue, come si è letto in giro.
Boom pandemico e difficoltà
«Durante il lockdown ho cominciato a postare dei mini approfondimenti a tema moda su Instagram: era diventato il mio corrispettivo della panificazione» mi spiega Federica Salto, che ho contattato insieme ad altri per provare a capire dove siamo, raccontandomi come è nato La moda, il sabato mattina: uno dei progetti di maggior successo nel panorama italiano. «C’era così tanto da dire che a maggio 2020 poi ho pubblicato la mia prima newsletter». Un timing e un’esigenza comune a molti.
Entrata da qualche mese nel mondo Gucci, Federica ha deciso di sospendere il suo progetto dopo tre anni in cui ha sperimentato molto. «Circa un anno dopo l’apertura ho cominciato a proporre un’offerta premium», con articoli riservati agli abbonati e un risultato notevole: «Su 25mila iscritti, circa un migliaio pagavano cinque euro al mese, o 50 euro l’anno. Un’esperienza bellissima, ma non mi sentivo pronta per concentrare le mie energie sul mio personal branding. Avevo ancora tanto da vedere e imparare».
Pietro Minto, giornalista e autore di Link Molto Belli, conferma un paio di punti: «Da noi c’è stato grande interesse pandemico sulle newsletter, come altrove. Portarle avanti, però, è molto faticoso e in tanti si stancano presto: è stato difficile, per esempio, trasformare la mia in un prodotto premium», offrendo parte dei contenuti in abbonamento. «Volevo fossero sempre disponibili, e rischiavo di rovinare il rapporto col pubblico».
Lanciata nel 2014 e specializzata nella raccolta di materiale ritrovato su internet, la sua newsletter è un cult e certamente tra le più antiche nel nostro paese: «All’epoca non c’era niente in italiano, ma una scena americana e inglese. Ora continuo perché mi diverte, mi ‘serve’, e non ho intenzione di smettere. Poi in generale, per me, non deve essere per forza monetizzabile, almeno non direttamente», precisa. «Da lì per esempio possono nascere altre cose, podcast, libri, video per TikTok».
Come monetizzare
L’ipotesi che le newsletter stiano forse diventando sempre meno un modello di sostenibilità, e sempre più un pezzetto di un’offerta editoriale più vasta, viene confermata da più parti.
«Se si sa scrivere bene è un buon modo di costruire una audience che va poi monetizzata in altre maniere, che si tratti di eventi dal vivo, vendita di merchandising o corsi» indica Andrea Girolami, responsabile dello sviluppo dei contenuti digitali di Mediaset, e autore di Scrolling Infinito.
«Questo, ovviamente, non significa che in futuro non ci possa essere spazio per nuove newsletter di successo», completa il digital strategist Valerio Bassan. Soprattutto da parte di creator che, però, «abbiano già sviluppato un’audience su altre piattaforme».
Attraverso Ellissi, il suo progetto sullo stato dei media digitali, anche Bassan raggiunge migliaia di iscritti. Ha provato a rendere sostenibile la sua proposta richiedendo un abbonamento, «ma coltivare una membership», mi dice, «era diventato troppo impegnativo. Ellissi è quindi tornata a un modello aperto, scrollandomi di dosso un po’ di “ansia da community”, e ora si regge sulla pubblicità: circa il 60 per cento delle uscite sono sponsorizzate».
Conquistare uno spazio
L’obiettivo, in buona sostanza, è conquistare il proprio posto nelle “diete mediatiche” degli utenti, in un gigantesco mosaico di abitudini digitali e bassa predisposizione al pagamento in cui chi produce contenuti finisce per diventare tessera, o se si preferisce, pixel: nelle ultime settimane Girolami ha collezionato un po’ di consigli a riguardo, in un post diventato subito il «più letto nella storia di Scrolling Infinito, con quasi 13mila visualizzazioni».
«Come tutte le cose di moda, che siano newsletter, podcast o TikTok, il percorso verso la saturazione è rapido», precisa. «Fare troppa strategia però fa male, e se ciò che scrivi è di valore per una community, allora ha senso iniziare: va fatto senza pensarci troppo. Altrimenti passa la voglia».
Da questo punto di vista torna preziosa l’esperienza della giornalista Donata Columbro, alla quale chiedo come prova a mantenere in equilibrio progetti individuali e vita professionale. «Nell’ecosistema della mia presenza online, la newsletter è centrale. A volte persino a discapito di pezzi giornalistici, che decido di produrre per me: lo spazio personale mi dà quella libertà che non avrei con nessuna testata».
Online dal 2020 con Ti spiego il dato, Columbro mi racconta di un modello diverso, basato sulla voglia di portare avanti il progetto («Nessuno mi ha chiesto di scrivere i miei pensieri sui dati con un approccio femminista intersezionale ogni settimana, sono davvero grata a chi mi legge»), ma anche su un sistema di sponsorship che accomuna molti: «È stato molto bello averne una per ogni numero da gennaio a giugno. Un modo per poter disporre di un “utile” da reinvestire, magari per pagare chi ha collaborato ai numeri estivi».
Come i blog
Nonostante casi fortunati e modelli effettivamente sostenibili, una certa disillusione di fondo sembra comunque serpeggiare nel mondo delle newsletter — o, quanto meno, mi chiedo se sia così.
«Ho la sensazione che un po’ di affaticamento ci sia» ammette Bassan. «Purtroppo non ho dati, ma sembra stiano emergendo meno newsletter mainstream rispetto al 2020-2021. In compenso quelle già radicate hanno visto crescere velocemente il proprio pubblico», anche grazie a un ingegnoso sistema di raccomandazioni interno a Substack.
È come con l’esplosione del blogging, in cui i primi arrivati «stanno ancora cercando di capire come far evolvere il proprio prodotto», aggiunge Federica Salto, «consapevoli però che il modello che si affida alla pubblicità tradizionale non fa per loro, e non può nemmeno essere sostituito dagli abbonamenti». Una nuova ondata c’è, continua. Apparentemente, però, «senza idee dirompenti, almeno per ora. Magari sono io, o magari è l’affezione ad esse che sta cambiando».
Donata Columbro vede la stessa marea e la stessa similitudine, ma da una prospettiva diversa: «Mi sembra di assistere a una fioritura, come per i blog nei primi anni Duemila. E come in quel periodo forse alcuni progetti saranno abbandonati. Tanti altri, però, continueranno a crescere e magari si trasformeranno».
Se guardiamo alla qualità, la sua opinione è che «non siamo al tramonto, ma ancora in un momento di crescita», in un contesto in cui buone pratiche resistono. «Ci sono prodotti come Guerre di Rete che funzionano perché sono molto chiari e fanno un servizio di qualità», conclude Minto, monetizzazione o meno. «E forse va bene così: diventare ricchi mandando email a sconosciuti non può essere un lavoro molto comune».
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