La prima volta che ho letto Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile ero poco più che bambina. Scivolato tra i pertugi della disattenzione familiare, il libro era finito in mezzo alle letture per l’infanzia seguendo l’apparente logica per cui si trattava, appunto, di fiabe. Ma si sa che le fiabe – quando non vengono mitigate da un menzognero lieto fine – contengono l’oscurità della violenza, e nelle novelle di Basile non c’era posto per alcuna mollezza o rassicurazione. Così, una volta aperto, le pagine mi hanno scodellato addosso fiotti di sangue e cuori di draghi marini dati in pasto a regine con l’utero più arido del loro cuore. La vertigine è arrivata però da una vecchia scorticata.

La storia narrava di due sorelle secolari e deformi che facevano innamorare il re grazie al suono della loro voce. Una delle due, con l’inganno del buio, riusciva a fare l’amore con lui, ma quando una fiammella illuminava la sua bruttezza, finiva scagliata fuori dalla finestra con il collo spezzato dai rami di un fico. Delle fate le restituivano vita, bellezza e giovinezza, il re la sposava, e la sorella dimenticata si corrodeva d’invidia fino a escogitare il riscatto per tornare eccitante e levigata. Così entrava senza paura nella bottega di un barbiere ordinandogli: «Eccoti cinquanta ducati, scorticami dalla testa ai piedi», e rimaneva salda mentre diventava fontana di carne e di sangue ripetendo solo: «Uh, chi bella vuol parere, pena deve patire!». Fino a morire.

Chiuso il libro, a dieci anni, con la pelle compatta e i capelli lucidi, mi sono sentita spacciata: presagivo il momento in cui avrei chiesto di farmi scorticare. E mi è venuta voglia di vomitare.

Poi ho pensato a mia sorella, che era una principessa senza bisogno dell’intervento delle fate. Lo capivo dai colori che usavo per disegnarla: rosa, azzurro, giallo. I pastelli per me: marrone, verdino, nero. Se il mio involucro non prometteva grandi splendori, il suo era fatto per essere amato, così ho trovato un po’ di pace sputando a terra e dicendo: «Tanto finirà scorticata anche lei. Capita a tutte, è sempre capitato».

Dicono: invidia tra donne, invidia tra sorelle. Tra fratelli non accadrebbe. Certo, penso io: loro s’ammazzano che è un piacere. Caino sceglie la mandibola di un asino per spappolare la fronte di Abele; Romolo uccide il gemello Remo perché ha saltato il solco sul quale devono sorgere le mura di Roma, compiendo un sacrilegio. Ciò che era di entrambi, diventa di uno solo: è il nuovo re. Fra maschi si usa così.

Regine in prigione

Noi sorelle le città le abbiamo osservate dall’alto. Eravamo canarini con lo sguardo lungo e il collo flessibile: dalle nostre gabbie le vie sembravano nastri di seta con cui intrecciavamo i capelli friggendo d’impazienza, e le mura da conquistare erano quelle della casa in cui venivamo condotte dopo che uno di quegli uomini, servo o re, ci aveva scelte. Ecco le nostre mura, finalmente regine, fosse anche di una prigione.

Ma quale prigione? Donna deriva dal latino dŏmĭna: “signora, padrona”. La lingua da cui veniamo ci descrive proprietarie, dominatrici di case da cui, per secoli, non siamo uscite. E se a ogni lingua corrisponde un particolare modo di osservare il mondo, in Cina la nostra subordinazione è incastonata nell’idioma. Il carattere , donna, deriva dal pittogramma che, originariamente, rappresentava una donna inginocchiata. Genuflesse su ossa oracolari fin dalle iscrizioni risalenti all’età del bronzo. Il confucianesimo definiva i ruoli sociali attraverso gli ideogrammi, e l’intera esistenza delle donne ruotava intorno alle tre obbedienze: quella al padre, al marito, al figlio.

La Cina non era poi così vicina, eppure nel 1813 – dal cottage di Chawton, nel piccolo villaggio dell’Hampshire – vede la luce Orgoglio e pregiudizio, il romanzo più celebre di Jane Austen, che inizia così: «È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie». Di nuovo, sorelle in competizione. Le cinque ragazze Bennet hanno lingue più affilate dei coltelli d’argento con cui, se potessero, si scorticherebbero per sgomberare il campo da rivali. Non essendo ricche, l’unico modo per procurarsi un buon patrimonio è quello di contrarre un buon matrimonio, e non ci sono tanti scapoli appetitosi nelle campagne dell’Hertfordshire. Poi, certo, c’è lei: Elizabeth Bennet che non vuole sposarsi e del patrimonio se ne infischia, ma ovviamente ottiene entrambe le cose e persino l’amore di Mr. Darcy. Ma Elizabeth Bennet non esiste, Jane Austen non si è mai sposata e l’unico potere che le donne hanno avuto, per secoli, è stato quello di rendersi desiderabili per farsi scegliere.

Potere e illusione

Bisogna essere corpo per esercitare il potere. E anche quando ti prendi con furia il diritto di essere corpo, spesso ti scopri illusione, incagliata a funzione di intarsio decorativo.

Zelda Fitzgerald, nel suo unico romanzo Lasciami l’ultimo valzer – più che autofiction, un tentativo rapace di riprendersi la sua voce saccheggiata dal marito Francis Scott – fa dire alla sua protagonista: «Non voglio che tu mi veda diventare vecchia e orribile. Meglio sarebbe morire entrambi appena compiuti i trent’anni». Condannata a interpretare per sempre la debuttante dell’Alabama che spezza i cuori con la sua bocca a cuore, Zelda è Antinoo: la sua bellezza è la sua arma. Prigionieri di quello che li fa risplendere all’ombra di imperatori, se il giovane della Bitinia, non ancora ventenne, scivola una notte di ottobre nel Nilo, Zelda muore invece a quarantasette anni, non troppo vecchia ma orribile forse un po’: la schizofrenia le ha mangiato bellezza e pensieri. Un incendio dell’ospedale psichiatrico di Asheville, in cui è ricoverata, brucia ogni cosa: mi è sempre piaciuto immaginare che l’abbia appiccato Zelda, magari con una sigaretta lasciata a infiammare tende e pazienti per trascinare tutti all’inferno con lei, che lo frequentava già da un pezzo. Il corpo carbonizzato viene identificato dall’impronta dentale e da una pantofola. Alla notizia della sua morte, qualcuno commenta: «Con il fuoco si distruggono le ribelli, le streghe e le sante».

È come se Zelda non fosse mai realmente esistita. Sempre in Lasciami l’ultimo valzer, in un dialogo tra la protagonista e un uomo che la desidera, risuona la maledizione di essere eterno personaggio.

«Siete divertente come un libro».

«Sono un libro. Pura finzione».

«Allora, chi è che vi ha inventata?»

Francis Scott Fitzgerald ha inventato Zelda: l’ha saccheggiata e poi sperperata, lasciandola implodere nella schizofrenia.

E mentre Zelda diventa cenere, in Italia il dopoguerra è desiderio di esistenze che volano sulle disgrazie lasciate finalmente alle spalle. Recuperata la possibilità del tempo come un concetto declinabile al futuro, sono tornati anche i sogni, e l’amore – disegnato a fumetti sulle riviste – si compra in edicola a un prezzo ragionevole.

Grand Hotel, che anticipa il fotoromanzo, esce nel giugno del 1946 e fulmina in un istante la tiratura iniziale di centomila copie. Il settimanale è un mix azzeccato tra il fumetto e il romanzo popolare, con una strizzata d’occhio al feuilleton francese e sempre moltissime disgrazie sentimentali che fanno sentire tutte meno sole. Gli amori disegnati si moltiplicano su ogni rivista: quei fumetti sdolcinati – declassati dagli intellettuali a “letture per cameriere” ­– fanno vendere milioni di copie. Accade spesso che le menti più illuminate siano anche le più sorde ai cambiamenti, quando si trovano ad attraversarli: i raffinati pensatori non si rendono conto che le operaie, le casalinghe, le domestiche, le studentesse e le contadine che le acquistano, stanno in realtà comprando ben altro che romanticheria a buon mercato. Molte di loro imparano a leggere proprio grazie a quei fumetti, masticando sillabe d’amore che poi restituiscono – gonfiate di tormenti che trasportano molta violenza e pochissima tenerezza – in lettere che inviano alla “Piccola posta” delle stesse riviste. Qualcuno finalmente le ascolta: è lì per loro. Se le storie disegnate narrano di creature docili e desiderabili, graziate dal sogno del matrimonio o maledette dalla malasorte di non ottenerlo, quello che le italiane scrivono suona invece tempesta. Le donne sono cambiate, gli anni del conflitto le hanno cambiate. Come racconterà Teresa Mattei: «In guerra avevamo guidato treni, fatto le postine, finita la guerra ci hanno rimandato a casa, e la parità era rimasta incompiuta». Le loro voci diventano adesso slavina che precipita su un’Italia maschilista e bigotta.

Lettere

Gabriella Parca, giornalista e scrittrice, sceglie trecento lettere tra le ottomila arrivate alla “Piccola posta” di due settimanali, e le raccoglie in un libro: Le italiane si confessano, pubblicato nel 1955.

In un paese in cui esiste ancora il “delitto d’onore” queste ragazze, mogli e amanti sull’orlo di una crisi di nervi, rovesciano il loro personalissimo vaso di Pandora colmo di insoddisfazione e rabbia.

Una donna di 26 anni racconta così il suo matrimonio: «Dopo un amore, come dire, burrascoso, mi sono sposata con l’uomo che amavo, ma dal primo giorno di vita insieme, lui si rivelò di carattere un po’ difficile, proibendomi di affacciarmi, di parlare con alcuno. Niente, carcerata dentro come una colpevole! Io, credendo che fosse gelosia, lo assecondavo credendomi amata. Dopo tre mesi di questa vita, cominciò a torturarmi dicendo che ero una buona a nulla, che non sapevo fare niente, neanche i bambini. Io, amandolo disperatamente, sopportavo tutte queste umiliazioni in silenzio per non far parlare la gente, e allora cominciò a menar le mani, a rendermi una cosa inutile e tutta dolori». Altre sono pronte a farsi giustizia da sé, come scrive questa ragazza di 16 anni: «Ma giuro che sono decisa a tutto se mi abbandona, sono decisa anche ad ucciderlo. E dopo ucciderò anche me».

Squarciando il silenzio in cui sono stati relegati per secoli, questi corpi in rivolta si accavallano come onde e parlano pubblicamente della loro guerra privata fatta di cene scagliate fuori dal balcone, letti ribaltati, violenze domestiche e incesti.

Pier Paolo Pasolini, dopo aver scritto una prefazione al libro di Parca che definisce «la più divertente lettura che io abbia fatto in questi ultimi anni», dichiara poi in un’intervista: «È vero che per secoli la donna è stata tenuta esclusa dalla vita civile, dalle professioni, dalla politica. Ma al tempo stesso ha goduto tutti i privilegi che l’amore dell’uomo le dava: ha vissuto l’esperienza straordinaria di essere serva e regina, schiava e angelo. La schiavitù non è una situazione peggiore della libertà: può anzi essere meravigliosa».

La schiavitù non è meravigliosa. Essere una maggioranza oppressa ci ha rese invisibili. Conquistare il proprio corpo significa anche conquistare una voce che ci permette di prenderci il potere. O di combatterlo, quando è oppressivo.


Questo testo è stato letto da Chiara Tagliaferri al Festival della nuova narrativa italiana Multipli forti. Voci della letteratura italiana contemporanea che si è svolto a New York e a Boston dal 25 al 27 aprile.

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