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Cosa lega un piccolo comune laziale sui monti Lepini al mare? Un concerto ispirato al canto del Sabir. Idioma parlato intorno al 1830 in tutti i porti. Indispensabile per chi vi lavorava.
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Un misto d’italiano, francese, spagnolo e arabo, indispensabile per chi lavorava sul mare e con il mare. Una lingua con un’infinità di varianti.
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Una lingua che non accetta omologazioni culturali e che mantiene la forza e la tenacia dei popoli del sud, esalta le loro differenze indicando un nuovo percorso, storie condivise per una comune anima mediterranea. Unità d’intenti. Dove non riesce la politica può farcela l’arte delle Muse.
Il Mediterraneo bagna Carpineto Romano. Non è impossibile perché, come insegna Calvino ne Le città invisibili non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive. Ecco allora che un piccolo comune di quattromila anime abbarbicato sui monti Lepini, a una sessantina di chilometri da Roma, viene toccato dal mare. Non c’è trucco, non c’è inganno.
Prendete una carta geografica, magari di carta anche se difficile a trovarsi, e come si faceva un tempo segnate con una matita il ridente paesino di montagna e tracciate una riga verso il Mediterraneo. Il risultato è evidente: c’è distanza e le acque che tanto hanno agitato Omero e la sua mente di volpe avvolta tra muschi e alghe, non toccano Carpineto Romano. Eppure tra l’uno è l’altro c’è un rapporto. Non è certamente geografico ma, più semplicemente, musicale. È l’arte delle Muse che non conosce confini, muri, frontiere e che riesce ad attraversare territori diversissimi e che avvicina luoghi lontanissimi per storia tradizioni e cultura. La musica infatti è in grado di legare l’ottovolante delle ripide gobbe montuose con il grappolo di onde imprudenti e sensuali. Carpineto Romano è così definitivamente nel Mediterraneo.
Goldoni e Molière
A fine mese, nell’ambito di una rassegna, Atcl, associazione teatrale dei comuni del Lazio (direttore artistico Alessandro Berdini), porta in questo luogo dal grido sospeso il canto del Sabir, la lingua del Mediterraneo. Idioma parlato intorno al 1830 in tutti i porti. Un misto d’italiano, francese, spagnolo e arabo, indispensabile per chi lavorava sul mare e con il mare. Una lingua con un’infinità di varianti, anche se la più diffusa e durevole era costituita principalmente dall’italiano con forti influenze liguri e venete, poi, in buona parte, dallo spagnolo che si sposa in leggerezza con l’arabo, il sardo, l’occitano, il siciliano, il turco e il catalano. Esempi del Sabir in Goldoni e in Molière. «Se ti sabir,/ ti respondir,/ se non sabir/ tazir, tazir» (dal Borghese gentiluomo). L’esempio più classico del Sabir viene da una preghiera, il Padre nostro: «Padri di noi, Ki star in syelo, noi voliri ki Nomi di Ti star saluti. Noi volir ki il Paisi di Ti star kon noi, i ki Ti lasar ki tuto il populo fazer Volo di Ti na tera (…) Non lasar noi tenir katibo pensyeri, ma tradir per noi di malu. Amen».
Una lingua che univa i paesi bagnati e che oggi con il Mediterraneo crocevia di tensioni viene riproposta attraverso la musica. Quella del maestro Stefano Saletti che con la Banda Ikona ha attraversato numerose città di frontiera con un piccolo registratore alla ricerca di un linguaggio comune a tutti i popoli. Ha toccato Lampedusa, Istanbul, Tangeri, Lisbona, Jaffa, Sarajevo, Ventotene cercando intrecci tra tempo vissuto e memoria. Ha catturato suoni, rumori, voci, spazi sonori, ha ascoltato cantanti di strada alla ricerca dell’infanzia perduta, in modo autentico senza cadere nell’errore di catalogare un’età con l’idea del sogno della maturità. «Ho usato il Sabir per raccontare la ricchezza, le speranze, il dolore che attraversano le strade del Mediterraneo» sostiene Saletti. Melodie e testi per un dialogo possibile all’interno del Mediterraneo. Un concetto, probabilmente. Come scrive Jean-Claude Izzo, poeta e sceneggiatore francese su Marinai perduti, le strade per mare e per terra del Mediterraneo sono collegate. Anche le città sono allacciate. Grandi e piccole. Si tengono tutte per mano. Il Cairo e Marsiglia, Genova e Beirut, Istanbul e Tangeri, Tunisi e Napoli, Barcellona e Alessandria.
La visione poetica di Izzo, datata 1997, non fa i conti comunque con una realtà profondamente cambiata. Gli interessi politici ed economici dei governi si sono incrementati nel corso degli anni e oggi si parla giustamente di un mare di crisi. Il vuoto di potere appare l’ambiente naturale di una moltitudine di poteri diversi, a volte incontrollati e incontrollabili, spesso senza regole. Le divisioni non sono solo politiche ed economiche ma soprattutto sociali e culturali. Ci sono islamici, cattolici, slavi, latini ecc. Un mondo di differenze che il canto Sabir sembra racchiudere come un istante eterno. Un collante. Il tentativo di mettere d’accordo i demoni del mare e della terra. Il canto Sabir è anche un affresco sonoro che racconta il dramma dei migranti, le loro speranze e il loro dolore. Nella lingua del dialogo. “Una lingua bella da mettere in musica, dolce e semplice, con i verbi all’infinito, una grammatica essenziale e tante parole che alla fine non appartengono a nessuna lingua, ma sono la sintesi di tutte” sostiene il musicista.
Una lingua che non accetta omologazioni culturali e che mantiene la forza e la tenacia dei popoli del sud, esalta le loro differenze indicando un nuovo percorso, storie condivise per una comune anima mediterranea. Unità d’intenti. Dove non riesce la politica può farcela l’arte delle Muse. Magari portando le acque del Mediterraneo a Carpineto Romano.
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