Il torpore è la reazione logica ai forsennati attacchi sferrati dall’epoca in cui viviamo. Per essere in grado di sopravvivere con almeno un’apparenza di sanità mentale, per riuscire a funzionare o addirittura a prosperare, il torpore è necessario.

Un torpore che è evidente sui mezzi di trasporto dei pendolari all’ora di punta, oppure camminando in un’affollata zona commerciale o in un quartiere imborghesitosi di recente, oppure quando si bacia il proprio partner con la testa da un’altra parte. O nel fare le intorpidenti faccende di casa alla fine di una giornata intorpidita dal fare qualsiasi cosa si faccia per assicurare la propria sussistenza. Il torpore precario dell’ubriachezza, dei rapporti sessuali privi di sentimento, di droghe a buon mercato o costosissime.

Un torpore che è permissivo, diversivo, che si premia con stati di torpore sempre più profondi. Il torpore dell’abbandonare il corpo, dell’abbandonare la mente, o dell’abbandonare una stanza dicendo: “La vita continua”. “La realtà è questa”. “Bisogna che te ne fai una ragione”. “Bisogna andare avanti”. “Bisogna portarlo a termine”. Bisogna portare a termine le cose, bisogna sempre portare a termine le cose, in uno stato costante di dissociazione leggera o pesante. Abbuffarsi di film. Abbuffarsi di alcol. Abbuffarsi di cibo. L’oblio.

È un torpore che conosco bene perché è la mia vita.

È un torpore che ho cercato. Per molti anni ho impegnato anima e corpo nella ricerca di questo torpore. Nel tentativo di perdere la sensibilità. Di evitare invece di approdare nelle mie esperienze. Ho avuto bisogno di qualcosa di totalizzante per staccarmi dalla realtà.

Ho scelto di usare droghe e alcol per sottrarmi alle pressioni della mia mente e del mondo. È stata un’esperienza sia positiva che negativa. Il torpore può essere bellissimo. Può essere necessario. Abbiamo bisogno di equilibrare le cose. Quando una vita scivola troppo profondamente nella connessione o nella sconnessione, cercare di rianimare la nostra incarnazione o di riradicare quello che si è sradicato è un processo logorante.

Parte dell’esperienza

Mi ritrovo a cercare un antidoto al torpore. Ma non c’è bisogno di vaccinarsi contro di esso o di bandirlo del tutto dalla propria gamma di esperienze. Il torpore fa parte dell’esperienza.

Come al solito, è il mio privilegio a parlare. Essere nella posizione di poter ignorare la realtà di ciò che questo sistema fa e continua a fare significa esserne complice. Significa trarne un enorme vantaggio. Poter non pensare a come chi vince a questo gioco abbia accumulato grandi quantità di ricchezza minerale significa trarre profitto da quella stessa ricchezza.

Il lungo elenco di paesi saccheggiati, di dittatori imposti, di rivolte finanziate da interessi commerciali, di corpi imprigionati, di terre rovinate. Morte, malattie e oleodotti. Potersi permettere di ignorare le diseguaglianze nella città in cui si abita significa prosperare su quelle diseguaglianze. La criminalizzazione dei corpi neri da parte di un governo strutturalmente razzista. Il ricorso crescente ai banchi alimentari. Le famiglie che vivono ancora in alloggi d’emergenza dopo l’orrore della Grenfell Tower.

Non pensare. Non voglio pensare. Le mie abitudini sono una prigione e non c’è niente di reale se non la vastità assoluta e non riesco né a muovermi né a smettere di muovermi. Mi hanno tolto tutti i turni e ora non riesco più a pagare l’affitto e aspetto ancora che il comune risponda alle mie richieste e mi arrangio con l’aiuto degli amici, ma non durerà per sempre.

Non sento più niente. Sono una brava persona. Investo tempo a parlare con amici dal cuore spezzato, offro loro i miei consigli più premurosi. Faccio quello che posso per la mia famiglia, vado a trovarli spesso. Non faccio battute inopportune, i bambini mi adorano. Mi piacciono gli animali. Mi ricordo sempre di amoreggiare un po’ con mio marito. A Natale regalo sempre gioielli a mia moglie. Non sento più niente.

James Baldwin descrive bene l’immersione nell’amore ossessivo nel suo romanzo La stanza di Giovanni: «Ricordo che la vita, in quella stanza, sembrava svolgersi al di sotto della superficie del mare. Il tempo scorreva indifferente sopra di noi, le ore e i giorni non avevano significato». Anche noi ci siamo trovati in un’analoga palude di irraggiungibilità, fuori dal tempo e in ritardo. È come smarrirsi in un rapporto tossico. So di non volerlo. Ma non so come uscirne.

Non siamo niente

Questo sistema ha bisogno del nostro torpore. Non siamo altro che agenti di consumo. Agli occhi del nostro governo, non abbiamo altro scopo. Non siamo niente. Grasso per ungere un meccanismo fondato sulla nostra complicità e sulla nostra appassionata malleabilità.

Ci hanno portato a credere di essere il nucleo di un futuro luminosissimo e che tutto quello che dobbiamo fare per vivere la miglior vita in assoluto è competere. Vincere. Consumare. Siamo dei consumatori, al pari dei nostri genitori, dei nostri nonni e dei nostri figli. Questa è la nostra eredità.

Sin dai tempi dell’Illuminismo, la venerata epoca della sete di sangue europea, che ha spacciato la propria importanza e diffuso la propria mitologia nelle nostre scuole, nei testi scolastici e sugli schermi televisivi come un’epoca d’impareggiabile eccellenza artistica e filosofica, l’epoca della fraternità e liberalità quando invece era un’epoca di violenza, di guerre civili e globali, d’ineguaglianza, di repressione e crudeltà feroce.

Si nutriva di sangue. Il sangue delle classi subalterne. Il sangue dei corpi neri e brown sfruttati, venduti e uccisi per il progresso. Insanguinati e svergognati in cima alle colonne in tutte le nostre terribili città, fieri templi di pietra in onore di un’epoca del male che è riuscita a vendersi come Epoca dei Lumi.

E noi viviamo ancora in quell’epoca. Il suo caos continua. L’industrializzazione dell’ineguaglianza continua. Il vostro torpore è necessario. Il mio torpore è necessario.

Eppure.

Questo brano è tratto da Connessioni prima opera saggistica di Kae Tempest in libreria da oggi edito da edizioni e/o

 

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