C’è stato un tempo in cui lo Stato italiano sceglieva di fare investimenti ingenti nella dotazione tecnologica digitale delle scuole. Quegli investimenti venivano giustificati con argomentazioni in sostanza fallaci, pseudoscientifiche, basate sull’idea che l’insegnamento con le tecnologie digitali sia più efficace dell’insegnamento senza le tecnologie.

Armati di questa convinzione, molti politici e tecnici dell’istruzione hanno avviato campagne di digitalizzazione in nome dell’equità sociale, scegliendo di migliorare le condizioni laddove ce n’era più bisogno, ovvero nelle scuole del Mezzogiorno, destinatarie di finanziamenti europei vincolati all’acquisto di laboratori, lavagne interattive multimediali (Lim), software per l’educazione, eccetera; ma anche con progetti per la prevenzione della dispersione scolastica, nelle scuole delle aree a rischio, e ovunque si ritenesse di dover colmare un deficit di qualche tipo.

A un certo punto, proprio quando arrivavano i primi dati sull’inefficacia di queste misure, nelle politiche dell’istruzione ha cominciato a farsi strada l’ipotesi assai più fondata che per insegnare a vivere nella società sia necessario mettere le persone in grado di gestire i flussi di informazione e i mezzi di comunicazione che costituiscono l’ambiente di vita reale di cittadine e cittadini.

Educare all’uso consapevole della tecnologia

Non di insegnare con le tecnologie digitali, attraverso strumenti espressamente progettati per l’educazione, ma di educare all’uso consapevole delle tecnologie attraverso il ricorso a dispositivi digitali a scuola.

Si chiama media education, ed è uno degli elementi fondamentali dell’educazione civica, le cui linee guida prevedono che la scuola si prenda cura dello sviluppo delle competenze di cittadinanza digitale. È in questo contesto che trova la sua applicazione la pratica del Byod, Bring your own device, porta il tuo dispositivo, perché acquisisce il suo pieno significato proprio nell’educazione all’uso consapevole del proprio smartphone o tablet, in continuità con la vita quotidiana.

La necessità di costruire una nuova cultura ricorrendo ai linguaggi avanzati

Quest’idea è perfettamente in linea con i principi della didattica attiva e della scuola democratica così come l’aveva immaginata John Dewey e come è stata praticata in ambito italiano dal Movimento di cooperazione educativa soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si riteneva necessario mettere a disposizione della comunità scolastica le tecnologie di comunicazione più aggiornate, dalla tipografia alla macchina fotografica, dal magnetofono alla cinepresa.

Non si tratta di essere attraenti, ma di dotarsi di quegli strumenti che possono dare spazio all’espressione personale, in modo che la classe diventi una comunità di persone che, senza rinunciare alla propria cultura d’origine, costruiscono una nuova cultura ricorrendo ai linguaggi più avanzati tra quelli messi a disposizione dalla civiltà in quel momento storico.

Un attacco diretto alla scuola democratica

Anche per questo il recente divieto di utilizzo dello smartphone anche per attività educative è uno degli attacchi più diretti e simbolicamente violenti tra i tanti sferrati negli ultimi tempi ai principi della scuola democratica. Proseguendo la tradizione di un riformismo basato su presupposti ideologici e orientato al consenso dell’elettorato di riferimento, gli attuali decisori hanno avviato un radicale cambiamento di rotta, che da una parte mette in discussione decenni di ricerca e di prassi pedagogica e didattica (negandone di fatto l’esistenza); dall’altra attinge in modo estemporaneo e approssimativo a risultati di ricerca selezionati tra quelli utili a giustificare l’allarmismo e il ricorso a misure drastiche ed emergenziali.

In estrema sintesi, si finge di non sapere che il solo modo per educare milioni di nuove cittadine e cittadini è dare credibilità ai sistemi di istruzione attraverso investimenti sulle istituzioni scolastiche e nella ricerca educativa. Al contrario si vanno a piluccare quei dati che mettono in evidenza i danni provocati dall’abuso delle tecnologie digitali o l’inefficacia dell’intervento delle famiglie o della scuola, eludendo il ruolo sociale dell’istituzione scolastica, che secondo una logica tipicamente individualista e meritocratica viene ridotta a un mero erogatore di servizi di istruzione finalizzati al successo personale.

Quali obiettivi giustificano una scelta così radicale e violenta?

Da una prospettiva progressista e democratica non si dovrebbe dimenticare di riconoscere alla scuola un ruolo trasformativo nella società e di ricorrere alla ricerca scientifica non tanto per giustificare le scelte politiche, quanto semmai per valutare su base empirica i risultati. Prima di dismettere l’uso degli smartphone, per esempio, non sarebbe stato opportuno avere qualche informazione attendibile sull’impatto della didattica laboratoriale con le tecnologie? E anziché usare alcuni dati scientifici per giustificare una scelta così radicale e violenta, non sarebbe meglio dichiarare quali obiettivi si pensa di raggiungere con questa misura, in modo da poterne verificare i risultati? Rimarrebbe pur sempre una scelta politica di destra, ma perderebbe la connotazione populista e reazionaria che sta assumendo in queste ore.

E invece, anche per i modi in cui viene propagandato, il divieto di uso dello smartphone nella scuola del primo ciclo, che proprio in questi giorni sta prendendo la forma di una grottesca caccia alle streghe, rappresenta l’ennesimo attacco alla libertà di insegnamento e all’autonomia scolastica, a cui si aggiunge una dichiarazione di sfiducia nel ruolo educativo del contesto familiare. A farne le spese sono i cittadini e le cittadine minorenni, vittime inconsapevoli di un discorso pubblico reazionario che li rappresenta come persone incapaci di sviluppo, bisognose di protezione al punto da essere escluse dall’accesso a internet, luogo privilegiato della produzione culturale contemporanea.

Un proibizionismo educativo funzionale al mantenimento del potere

Ma davvero qualcuno pensa che lo Stato, quello stesso Stato che impone l’obbligo scolastico e intanto riduce le spese nel settore educativo, possa ricorrere al divieto – ovvero al monopolio della forza – per migliorare il benessere e gli apprendimenti delle nuove generazioni? In realtà, proprio come le politiche di respingimento dei migranti, questo proibizionismo educativo serve solo a mantenere il potere nelle mani di chi prende le decisioni e che sembra disposto a delegare al sistema giudiziario e alle forze dell’ordine la risoluzione di problemi che metterebbero in discussione la cultura dominante.

Ma l’aspetto più allarmante di questa campagna censoria è l’emergere sempre più evidente di logiche autoritarie anche in ambienti che una volta avrebbero avuto qualche timore a mettere simbolicamente le mani addosso alle persone. Forse è venuto il momento di cominciare a mettere in guardia i nostri figli, figlie e figliə dalla brutalità e dalla violenza di chi attualmente governa lo Stato e di chi spadroneggia nello spazio mediatico.

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