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Ieri sono stato a cena, a New York, dalla mia professoressa del cuore, Lina Bolzoni, formidabile rinascimentista che ogni tanto insegna in giro per il mondo. Non penso serva aver fatto un dottorato per capire come sia strano e potenzialmente assai gioioso il percorso professionale e affettivo che porta un discente a diventare collega della propria maestra e al contempo, per chi è particolarmente fortunato, un suo amico.
Come dicevo in questa rubrica raccontando di un’altra mia maestra, quel rapporto metamorfico è stato chiaramente codificato (nell’immaginario, ma anche nella pratica) in un clima di omosocialità assoluta: come una cosa da maschi appunto, come una cosa tra maschi. Viverlo invece abitando generi diversi, e nella direzione gerarchica più inusuale, può essere a volte complicato, e rimane in un certo senso radicale, addirittura rivelatorio.
Mi ha colpito, nell’appartamento di Lina, andare a riprendere il cappotto a fine serata nella zona notte, trovandolo sul suo letto ordinato e perfettamente rifatto assieme a quelli degli altri ospiti. Sul treno del ritorno, rallegratissimo dalle chiacchiere e dall’affetto, mi è venuto da domandarmi quale strano confine mi fosse parso di superare entrando nello spazio in cui una figura cui ho a lungo dato del lei, cui continuo ad attribuire meritata autorità, si mette a dormire. Perché mi pare tanto intimo un oggetto come il letto, da cui Churchill dettava direttive ai dattilografi e i re della Francia barocca davano udienza ai più potenti cortigiani? C’entra qualcosa il fatto che sono maschio?
Forse c’entra il fatto che, da quando vivo per conto mio, il letto credo di non averlo mai davvero rifatto. A dirla tutta, non uso neanche le lenzuola. Sin dal primo giaciglio di dottorando a Pisa, nel gradevole stanzone di uno di quegli appartamenti che i palazzinari affittano disordinatamente a gruppi di studenti variamente assortiti, ho optato per uno schema semplificato: coprimaterasso (quello con gli angoli, per il sotto) e piumino, che in realtà mi è parso sempre fresco anche d’estate (per il sopra).
Più che stendere quell’unica coperta morbidosa su tutta la superficie non ho mai fatto granché, e il mio letto ora grandissimo, king-size americano, è sempre un’isola bianca su cui si poggia alla rinfusa una coltre trapuntata e soffice. Mi piace così. E tuttavia, da ragazzo a modo quale mi auguro di essere, mi sembra che un letto non rifatto non sia presentabile – e dunque raramente i miei ospiti sono ammessi nella camera da letto, dove i cappotti perciò non li metto.
Non so però se basti il mio confortevole disordine a spiegare l’aura d’intimità che attribuisco al giaciglio in sé. E dunque questa settimana ho pensato di ragionarci su per Cose da maschi, rivelando anche l’episodio di bromance da cui la rubrica stessa trae il suo nome.
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Parto dalla grottesca bromance populista che ha segnato la politica internazionale della mia prima giovinezza, quella tra Berlusconi e Putin, ormai sfiorita nella mastodontica inopportunità della guerra e dai nuovi (anche se ovviamente radicati nel passato) disequilibri tra oriente e occidente. Dal famoso lettone che suggellò quell’amicizia di disperate solitudini arci-maschili passo, come al solito, a una serie di cose strane: Riccardo Cuor di Leone e l’iconografia dei Re Magi, L’isola di Arturo e i padri della patria americani, i TikTok degli zoomer ai pigiama party e alcuni fatti miei. Credo che ne emerga un invito a rilassare le angosce della prossimità, dell’affetto, della condivisione: un invito a condividere in particolare i sogni, cedendo alla voglia di non interrompere la compagnia e rifiutando il terrore della fragilità.
Didier Falzone, elaborando con gusto sopraffino la bromance medievale tra Riccardo I d’Inghilterra e Filippo II di Francia, gioca con prospettive giottesche e araldica europea nel suo splendido collage, che anche oggi accompagna la rubrica. Spinge sfacciatamente l’episodio di quasi un millennio fa, che nell’articolo racconto un po’ attraverso le cronache di Ruggero di Hoveden, oltre la performance dell’amicizia maschile che i medievisti (ma a dire il vero soprattutto le medieviste) hanno ricostruito, immaginando i prìncipi più nel closet che sul letto che in effetti condividevano.
Non vedo l’ora di rimirare quest’illustrazione stampata nel giornale. E non vedo l’ora di condividere con voi, tra due mercoledì, un ragionamento che ho in serbo sulla cintura e sul neofascismo, nonché un articolo molto bello sugli orologi che ho ricevuto da una studiosa di moda e italianistica della New York University. Per ora, vi lascio con una riflessione nata dall’ultimo numero della rubrica.
Due sabati fa mi ha svegliato presto la mattina un trillo di WhatsApp. Il messaggio, laconico, diceva solo: «Bronzino?!». Se non me l’avesse spedito Walter Siti, autore leggendario dai modi bonari (e d’altronde dalla fama d’inenarrabile perfidia), mi sarei rimesso a dormire pensando a un errore d’invio – quello che in America si chiama “butt dial”. Invece, da secchione con la coda di paglia che all’università leggeva i romanzi e i saggi di Walter Siti (e che ora si bulla di scrivere sul giornale in cui scrive Walter Siti), mi ha attraversato un immediato sussulto cerebrale.
Mi sono reso conto all’istante di aver scritto una cretinata da niubbo su una testata nazionale: la statua di Ercole e Caco a Piazza della Signoria non è di Bronzino, come devo aver detto incautamente anche a lezione, ma di Baccio Bandinelli. Non starò qui a giustificare il lapsus tra i due artisti (anche se vorrei tantissimo trasformarlo in un pippone sulla sodomia nella Firenze medicea).
Mi interessa invece condividere con voi un’altra ansia tipica del maschile – o meglio, un’ansia che, a differenza di quella per l’intimità, i maschi dovrebbero credo nutrire, coltivare, interrogare.
Vicino alla fatidica soglia dei trentacinque anni, protetto dallo scudo spaziale di un titolo dottorale e di una carriera accademica (nonché dal physique du role garantito dalla calvizie, dalle cravatte, dal gesticolio che automaticamente accompagna qualunque mio ragionamento), mi capita sempre meno di essere contraddetto. O meglio, la gente tende a fidarsi di me se parlo o scrivo di cose come le statue, i poemi cavallereschi, le trame di romanzi, i morti ammazzati di secoli orsono – se invece sparo qualche imprecisione su Spider-Man o sui cartoni giapponesi, per dire, diversi lettori (sempre maschi) mi fanno giustamente la ramanzina sui social, ma questo è un altro discorso.
Non mi sembra difficile concordare sul fatto che una donna coi miei stessi titoli, se scrivesse e dicesse le stesse cose che scrivo e dico io, riceverebbe uno scrutinio diverso e ben meno blasonati, ben meno gentili inviti alla correzione. Più complicato è ragionare seriamente su cosa fare di questa innegabile verità, addirittura banale.
Credo che Cose da maschi non serva tanto a spingere chi ne legge e chi ne scrive i contenuti a fingere di poter trasferire i privilegi legati al genere a coloro che tradizionalmente non ne godono, o di poterli abolire in una specie di utopia egalitaria del chi s’è visto s’è visto. Si propone invece di trasformare tali privilegi (ad esempio quello dell’autorità, accordato così facilmente a certe categorie di maschi) in una cosa di cui diffidare, in un impiccio con cui fare i conti, in una gabbia da cui evadere. In una responsabilità, ma non nel senso patriarcale e paternalistico del fardello di cui sobbarcarsi: piuttosto nell’ottica del responso, della risposta.
Bisogna rispondere, senza coccodrilleschi sensi di colpa assolutori, del proprio privilegio. E dunque, per liberarmi degli aspetti soffocanti della mia maschilità professorale, vi invito a continuare a rispondermi non solo con le idee e i contributi che amo sempre ricevere, ma anche con appunti e dubbi cui spero di saper a mia volta dare responso. Grazie!
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