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Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani su nuovi e antichi paradigmi di genere.
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Mio nonno mi ha insegnato a pettinarmi per fare di me, ancora ometto, un galantuomo. Il pettine però poi mi ha tradito, e sulla scorta dell’Elogio della calvizie di Sinesio di Cirene sono stato quasi sollevato nel liberarmi dei capelli. Nell’arte occidentale il pettine è dipinto sempre in mano alle donne. Ma forse questo si deve banalmente al fatto che la scena di un uomo che si fa bello non è stata a lungo ammissibile nel novero delle immagini che dovrebbero restituirci i nostri costumi e le nostre usanze.
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Un gentiluomo, mi rivelò presto il mio assai gentile nonno materno, tiene i capelli in ordine. Lui diceva, per la verità, “galantuomo”, e di capelli ne aveva ormai pochi, ma ordinatissimi.
Dovevo avere meno di cinque anni quando cominciò, prima dei pranzi domenicali, il rituale che mi distingueva da mia sorella, dalle mie cugine: che mi preparava appunto, almeno un decennio in anticipo sui baffetti destinati a ulteriori e più rischiosi rituali di toletta performativa, a curare il mio gentilomismo a venire. Si trattava allora solo di un gentilomettismo, giacché io ero ancora un ometto. O meglio, lo volevo essere. O meglio, lo diventavo quando nonno mi conduceva nel suo bagnetto, quello piccolo e spoglio con solo la doccia, e si ungeva il pollice con pochissima brillantina, nel più incantato dei miei silenzi rispettosi.
Estraeva dunque da una custodia nera un pettine bruno, un po’ trasparente, e con quello stendeva il gel odoroso di chimica sul mio cuoio capelluto, producendo una scriminatura che durava poi tutto il giorno. Uscivo da quel bagnetto con la chioma adesa al cranio, improvvisamente somigliante ai giovanotti nelle illustrazioni dei libri dabbene (De Amicis, la via Pal, Pinocchio che diventa un bambino vero) invece che a quelli di cartoni e telefilm. Un galantometto. E sentivo, su quella pelle normalmente coperta da una coltre di capelli gonfi, le linee su cui i denti del pettine erano passati come un aratro, preparando la mia testa per la seminagione della galanteria, di una maschile adultità inimmaginabile.
Pettine e specchio
C’è un sonetto superbo che il nostro maggiore poeta barocco, Giambattista Marino, ha dedicato al pettine; ne si studiano ancora i versi, credo, a scuola. La chioma è un mare d’oro, il pettine una piccola nave d’avorio, la candida mano che lo brandisce è composta della stessa sostanza: tutto è vitale, ondoso, eppure minerale e metallico, inorganico.
I capelli d’altronde sono morti: sono inservibili cellule morte come le unghie, e infatti crescono anche ai morti nelle tombe. La loro inanimata inutilità è rimarcata da Sinesio di Cirene, un dotto dell’antica Libia che aveva imparato la filosofia dalla leggendaria Ipazia (quella del film cafone con Rachel Weisz) per poi convertirsi al cristianesimo e diventare vescovo.
Oltre a glossare i testi alchemici dello pseudo-Democrito e a redigere un visionario trattato sui sogni destinato a essere commentato da quel mago scienziato di Girolamo Cardano (un personaggio assurdo del nostro tardo Rinascimento, quasi contemporaneo di Marino), Sinesio aveva scritto un Elogio della calvizie. Me ne regalò un’edizione italiana la mia amica Martina Piperno, ora professoressa all’università di Durham, quando eravamo entrambi laureandi alla Sapienza. Perché già allora, poco più che ventenne, stavo evidentemente perdendo la chioma che mio nonno, negli anni Novanta, mi aveva inutilmente insegnato a governare.
E dire che, quando da ometto mi ero fatto ragazzo, avevo cominciato a portarli lunghi i capelli – anzi, famosamente lunghissimi. Senza ancora sapere di Sansone e di Khal Drogo, sfuggivo, per quanto mi era concesso, dalle forbici del barbiere, prediligendo l’autogestito strumento di manutenzione delle mie apparenze di galantuomo trasmessomi da nonno: il pettine. Me ne aveva proprio regalato uno, piccolo com’ero allora piccolo io, assieme a un altrettanto piccolo specchio rettangolare, adatto, come il pettine, alle dimensioni di un taschino da camicia, da polo, da giacca.
Specchietto e pettinino da gagà dovevano sembrare o troppo seri o troppo buffi nelle mie manine preadolescenti quando nonno smise di pettinarmi lui, invitandomi a fare da solo, e infatti mi era proibito portarli a scuola. Più avanti, ragazzetto maturo con la chioma fin sotto alle scapole, andavo al mare con un pettine allacciato al lungo costume da surfista e, ignaro del fatto che servisse a stendere la paraffina sulla tavola (che d’altronde non avrei saputo cavalcare sulle onde stanche del Tirreno, a Santa Marinella), lo usavo per aggiustare la riga in mezzo.
Angosce tricomiche
Il traduttore della mia edizione dell’Elogio della calvizie, un patafisico e studioso di avanguardie di nome Antonio Castronuovo, suppone che Sinesio di Cirene abbia scritto quel trattatello nell’angoscia che le sue fidanzate gli preferissero più chiomati rivali.
Devo dire che io invece ho provato sollievo quando ho ammesso l’evidenza e ho cominciato a radermi a zero, ormai più di dieci anni fa, sostituendo al piacevole grattare dei denti del pettine sulla cute quello altrettanto piacevole ma persino più intimo dei denti del rasoio elettrico – quando non delle sempre più numerose lamette che tergono la schiuma, rivelando il pallore della testa.
Ricordo benissimo il primo, in realtà piuttosto innocuo episodio di bullismo che, in prima media, mi segnalò che gli altri mi vedevano e che non gli piacevo: non mi ero tagliato i capelli per tutta l’estate, li portavo serenamente incasinati perché volevo momentaneamente trasgredire all’estetica vetusta dei galantometti e, sulla strada di casa, mi raggiunsero una risata e un urlo: «Giammè, vatte a pettinà».
A raccontarlo così mi sembra una stupidaggine. Eppure fu un momento che pettinò con decisione la mia condotta. All’improvviso indugiavo in bagno per acconciarmi, strigliavo la zazzera ansiosamente, scoprivo nel pettine un alleato insufficiente, che passava attraverso i miei evidentemente ridicoli capelli senza trasformarli in quelli normali, giusti, adeguati di tutti gli altri. Mi pareva che mi tradisse, che fossi l’unico studente di prima media al mondo i cui capelli non rispondevano al governo del pettine. È forse la memoria di queste angoscette ad avermi fatto più sportivo di Sinesio, più pronto a liberarmi dei capelli.
Eppure devo ammettere che, quando ho indossato un completo di mio nonno ormai scomparso per andare a fare un colloquio di dottorato e ci ho trovato, nel taschino, un suo pettine, la piccola commozione di lutto è stata doppia. E quando in New Jersey, al negozio di sigari da gentiluomini in cui compravo le sigarette, ho trovato in vendita quei pettini di plastica tartarugata da maschi (avete presente?) ne ho comprato d’impulso uno, pur non avendo per esso alcuno scopo. Mi ci pettino la barba mentre scrivo, pensieroso; è una questione più tattile che di toletta.
Evadere la disciplina
Nell’arte occidentale il pettine è dipinto sempre in mano alle donne, e anche la poesia di Marino in realtà descrive una donna che si pettina. Ma forse questo si deve banalmente al fatto che la scena di un uomo che si fa bello, che cura il proprio aspetto, che usa su di sé uno strumento di “beautification”, come si dice in inglese, non è stata a lungo ammissibile nel novero delle immagini che dovrebbero restituirci i nostri costumi e le nostre usanze.
Al Getty Museum c’è una bellissima foto di Mapplethorpe del 1980 che ritrae Tim Scott da dietro mentre si liscia la brillante criniera, indugiando sulla nuca. Non ci sono specchi, e il ragazzo guarda assorto in basso mentre si sonda coi denti del pettine, come se cercasse con perizia qualcosa alla radice di quei suoi foltissimi, formidabili capelli di semidio urbano. È forse una delle immagini più presentabili mai prodotte dall’artista, eppure l’intimità è scabrosa, totale.
Non riesco a pensare a un gesto più intimo d’altronde, nel reame del presentabile, del passare a un maschio le dita tra i capelli dietro la testa. È lì, ricordo chiaramente, che mi piaceva di più passare il pettine quando avevo i capelli. Ora che non ho più ragione di usarlo, mi incuriosisce la natura della mia nostalgia per il pettine. È una nostalgia estranea all’originaria funzione modellante, di dominio, per cui quell’oggetto mi era stato proposto nell’inventario della mia maschilità.
Più che alla disciplina, voglio associare il pettine al piacere, all’intimità e alla propriocezione, alla curatela. Se tutti i nodi vengono a lui è perché il pettine serve a conoscere ogni angolo di sé, anche quelli che allo specchio non si vedono. È un utensile per massaggiarsi, per attraversarsi e trovarsi ancora tutti interi, per essere a colloquio con il vasto mare di un corporeo e in parte inorganico, alieno sé, come la protagonista del sonetto mariniano. Vorrei mi ricrescessero i capelli solo per pettinarli finalmente senza aspettarmi che cambino forma, senza sperare di domarli.
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