Il povero Cyrano l’hanno reso indigesto i Baci Perugina. Li scartavi e ti usciva sempre lo stesso billet doux: «Cos’è un bacio? Un apostrofo rosa tra le parole t’amo». Danni collaterali da iterazione: un rigetto da eccesso di zuccheri. Ma esistono da sempre i personaggi in cerca d’attore, più che d’autore. Scriveva Oscar Wilde che ci sono tanti Amleto quanti sono gli attori che lo interpretano. Vale anche per Cyrano, al secolo Hercule Savinien Cyrano de Bergerac, trasgressivo scrittore secentesco “ritrovato” e consegnato all’eternità nel 1897 dal drammaturgo Edmond Rostand.

Nella proto fantascienza romanzesca coltivata dal vero Cyrano, ricordato non meno per la sua lama che per il suo naso, covavano utopie da genio squattrinato: nel suo L’altro mondo o Gli stati e gli imperi della luna i versi delle poesie valevano come soldi per pagare gli osti, un colpo d’archibugio ti procurava uno stormo di allodole già arrostite. Rostand ha cucito intorno alla sua leggendaria figura un archetipo umano di umorismo e costanza amorosa, di generosità e solitudine che resiste al logorio dei secoli.

Tanti Cyrano

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Da personaggio in cerca d’attore, Cyrano sullo schermo ha fatto vincere l’Oscar a Josè Ferrer nel 1950. Quarant’anni dopo Jean-Paul Rappeneau lo ha affidato alla gigioneria carismatica di Gérard Depardieu.

In Francia lo ha interpretato anche Jean-Paul Belmondo, in un film per la tv, e Hollywood lo ha modernizzato, com’è suo antico vizio, con lo Steve Martin di Roxanne e di recente, al femminile, con il melenso Sierra Burgess è una sfigata. Ma il Cyrano cinematografico più struggente di sempre non ha bisogno di protesi.

La causa del suo amore infelice non sta in quel naso fuori misura che, nel testo teatrale, “lo precede di un quarto d’ora”. Forse esiste ancora qualcuno che non è stato folgorato da Peter Dinklage al netto di otto stagioni de Il Trono di Spade, che non lo ha scoperto attraverso Nip and Tuck o il Marvel Avengers-Infinity War, e che non si è preso/a una cotta per il tenace corteggiatore di Frances McDormand in quel gioiello che è Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. Questo Cyrano di Joe Wright, trasposizione del musical di Erica Schmidt, in sala dal 3 marzo, è l’occasione per lasciarsi sorprendere.

Le regole del politically correct

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Peter Dinklage misura un metro e trentacinque, è affetto da acondroplasia ereditaria. Gambe e braccia non crescono come il resto del corpo, tutto qui. Autrice e regista "off-Broadway”, Erica Schmidt ha ricalibrato su Peter, che è suo marito, la peculiarità fisica di Cyrano: una svolta trionfale in teatro, replicata dal film.

Si è molto polemizzato sul nuovo codice inclusivo dell’Academy, che per la candidatura più ambita, Best Movie, impone ferree regole politically correct. La storia deve essere incentrata su donne, esponenti Lgtbq, minoranza etnica o razziale, o persone con disabilità cognitive o fisiche. Oppure: almeno il 30 per cento del cast deve appartenere ad almeno due categorie sotto rappresentate.

Oppure: almeno un attore di gruppi etnici sottorappresentati deve avere un ruolo di rilievo. Il Cyrano di Wright, che oltre a Peter come eroe  principale schiera anche un Christian afroamericano (Kevin Harrison Jr.), ha tutte le carte in regola.

So di andare controcorrente, ma senza questi paletti per il cinema mainstream sarebbe stata improponibile una “persona piccola” (leggi nano, secondo il vocabolario comune) in un leading role classico.

Gli standard fissati a tavolino possono essere comoda ipocrisia di facciata, per il sistema di potere rappresentato dall’Academy, ma possono anche liberare eccezionali talenti fino a oggi – per convenzione – relegati a ruoli da caratterista. I soffitti di vetro non affliggono solo le donne.

Si può sorridere sulle simmetriche dinamiche familiari che il cast del film rispecchia: anche Haley Bennett (Roxanne) e il regista Joe Wright, come Dinklage e Schmidt, nella vita sono una coppia. Ma raccomandati proprio no: è impossibile non riconoscere che questa Roxanne incarnata da Bennett prima in scena e poi sullo schermo ha capacità vocali di prim’ordine e una fresca simpatia contagiosa.

Il linguaggio

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Il Cyrano girato in pieno lockdown in terra di Sicilia, tra Noto e le arsure dell’Etna usate come location per le scene di guerra, è un caso di revisionismo intelligente del testo. Corsetti e gale a parte (per cui il costumista Massimo Cantini Parrini, unica nomination agli Oscar 2022 per questo film, si è ispirato a Watteau) Roxanne è una donna moderna, intelligente e colta, lettrice insaziabile. Canta Someone to say come  un manifesto di autodeterminazione femminile: «I’m nobody’s pet, no one’s wife, no one’s woman» ( Non sono il cucciolo di nessuno, la moglie di nessuno, la donna di nessuno).

Sono bei testi, e per niente banali, quelli scritti a quattro mani da Matt Berninger e Carin Bessner sulle pop ballads di Bryce e Aaron Dessner di The National. È un musical senza ragnatele, che parla al terzo millennio. Le lettere appassionate che Cyrano fa  firmare a Christian, tanto aitante quanto illetterato, hanno la stessa valenza dei profili facebook: mostri un te stesso che può farsi apprezzare, ti barrichi dietro identità fittizie per essere amato come vorresti e come sai che non ti accadrà mai.

Quando attualizza con troppa disinvoltura classici come Orgoglio e pregiudizioAnna Karenina, intrugliando pasticci funky barocchi, Joe Wright mi fa venire l’orticaria. Qui però un handicap fisico ben più radicale del naso sproporzionato mette le ali al romantico triangolo amoroso immaginato da Edmond Rostand.

Rapper ante litteram

Invision

Il corrosivo verseggiare del poeta spadaccino può trasformarlo ( la trovata è notevole) in un rapper ante litteram:  accade all’inizio del film, nella scena del teatro. Ma le rime del celebre “monologo del naso” vanno piegate a un diverso insulto.

“Freak” è l’epiteto corrente che Peter Dinklage-Cyrano ha subito a usura, e può ribaltare per sfida. Il freak che si sacrifica come ghostwriter e suggeritore del suo rivale in amore risulta umano, credibile e straziante come non mai. È proprio la sua fisicità a porre domande al presente e al nostro modo di guardare il mondo, così come il Duca de Guise, potente corteggiatore di Roxanne (Ben Mendelsohn) racconta tecniche e abusi dei predatori sessuali nostri contemporanei.

Mi sono chiesta, da spettatrice, se è l’empatia che nasce da quella miniera di dolore e passione che sono gli occhi di Peter Dinklage a dare nuovo smalto a una storia nota, a rendere così godibili duelli e lavori umili coreografati.

È un musical che nasce in teatro, ma il cinema - questo è il vantaggio - può stringere sui primissimi piani. Se il nuovo codice inclusivo degli Oscar serve a conquistare ad attori magnifici e sfavoriti come Dinklage ruoli da protagonista assoluto, se i sex symbol non sono più un imperativo categorico nelle storie romantiche, se prima o poi ci scorderemo di precisare che il “bello” e la “bella” hanno colori di pelle diversi da quelli convenzionali, forse  è il caso di riflettere, prima di sbeffeggiare i rigori ragionieristici del nuovo politically correct.

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