All’inizio ci fu una disgrazia, capitata a due dei tanti di loro che mi hanno accompagnata. Non riuscivo a parlarne. Mi tornava nei sogni o di giorno mi toglieva il respiro. La scrittura ha esorcizzato quella triste storia: un balsamo
Autobiografia dei miei cani, appena uscito nelle nuove edizioni Gramma Feltrinelli, per me è una doppia scommessa: prima volta che mi metto a parlare direttamente di me stessa e prima volta con Feltrinelli in questa nuova avventura editoriale dal nome impegnativo di Gramma, che sta addirittura per Scrittura, con la maiuscola. Vale a dire che pubblicherà dichiaratamente ed esclusivamente libri di Letteratura (con la maiuscola), «libri destinati a durare nel tempo» e cose così. Cose da far tremare i polsi, soprattutto in tempi usa e getta come i nostri.
E io adesso, oltretutto, mi devo mettere qui a scrivere di una me stessa, cui ho dato il nome di Elettra, che sostiene di aver scritto lei i miei libri precedenti, racconta amori che sono stati i miei, ha avuto i miei cani, nuota da dio (ebbene sì, lo ammetto) e ha sbattuto la testa varie volte in dolorose vicissitudini tali e quali le mie.
Non contenta, vado cianciando di un’autobiografia che non è esattamente la mia, ma dei miei cani appunto, anzi a ben guardare i cani di questa Elettra che mi ha spodestata pur rimandandomi la palla indietro praticamente a ogni pagina. Un vero labirinto. Come ne esco?
In principio
Forse cominciando dall’inizio. All’inizio ci fu una disgrazia, capitata a due dei tanti cani che mi hanno accompagnata fin da quando ero piccola. Non sempre gli stessi, beninteso, perché gli animali non hanno una vita lunga. Il trauma di quel dramma, di cui sono stata causa inconsapevole e indiretta, accaduto più di dieci anni fa, non mi abbandonava mai. Non riuscivo a parlarne.
Mi tornava nei sogni o all’improvviso anche di giorno come un’ondata dolorosa e mi toglieva il respiro. Allora ho pensato: forse se provo a scriverne potrò esorcizzarla quella triste storia, se provo ad affidarla a parole silenziose che sono la mia tana e il mio balsamo.
Così mi sono messa a scrivere Autobiografia dei miei cani e il titolo una volta tanto è arrivato subito. Me l’ha suggerito la mia scrittrice preferita, Jamaica Kincaid, col suo Autobiografia di mia madre (edito in Italia da Adelphi, se vi interessa) dove in realtà parlando di sua madre non fa che dire di sé perché poi è sempre così nei romanzi, come sostiene il cosiddetto “amico scrittore” nel mio, chiamiamolo memoir: «Scriviamo e giriamo intorno a noi stessi, fingendo di fare il giro del mondo».
Ci tornerò all’amico scrittore, ma adesso procediamo con ordine. Ho capito subito che, per arrivare a raccontare l’irraccontabile della fine di Pietro e Céleste, così si chiamavano, l’uno detto il Grande e la seconda come la Albaret governante di Proust, avrei dovuto partire dall’inizio, da quando ero una bambina chiusa, timida, scontrosa e non avevo ancora cani miei, ma m’innamoravo dei cani degli altri: quelli che vedevo alla catena o soli (come me) dentro i loro recinti, quelli delle amiche di mia madre con cui facevo subito amicizia. Finché mio padre mi concesse di averne uno mio.
Si chiamava Rocky, primo di una lunga serie di «accompagnatori della mia vita» come mi piace definirli.
Nel libro ci sono tutti con le loro storie e le storie che intanto accadevano a me: amicizie femminili e maschili, grandi amori, amori così così, tre matrimoni, le mie vicende col nuoto (unico sport praticato con successo, per il resto: una schiappa), l’apprendimento letterario in mezzo a un gruppo di intellettuali molto più colti e ferrati di me.
Un catalogo di ricordi, insomma, che mi ha preso a volte alla sprovvista: «Capita che, in piscina, debba fermarmi, sopraffatta dai ricordi. Mi accosto al bordo e mi permetto di piangere, tanto le lacrime si confondono con l’acqua e tutto è meno drammatico. Capita che Mago, mia guardia del corpo sempre all’erta, non sapendo spiegarsi la scena, faccia comunque un gesto di conforto: mi mette una zampa sulla testa. E questo effettivamente mi calma».
I nomi non si cambiano. Nei libri sì
Mago è uno dei quattro cani che ora vivono con me. Nella realtà ha un nome diverso, ma il fatto è che i miei cani sono sempre trovatelli o sono stati scaricati da un padrone precedente e quindi spesso hanno già un nome. Così, per rispetto delle loro abitudini, nella realtà il nome non gliel’ho mai cambiato, anche se non mi piace.
Nel libro però ho potuto farlo, ho potuto scegliere i nomi secondo me più somiglianti. L’ho fatto anche con le persone, a volte, di cambiare il nome. E il motivo profondo credo che è detto bene in una nota anteposta al racconto.
Eccola qui: «In questo libro tutto è vero e tutto è falso. Realtà e immaginazione si sono intrecciate in modo inestricabile. Come nei sogni, è ora difficile venirne a capo prima di tutto per me che ho sognato/scritto. Non cercate perciò di dare un nome autentico ai personaggi. Persino i nomi dei miei cani, realmente vissuti, tutti, e identici a come sono stati descritti, in certi casi hanno subìto una modificazione. Perché sulla pagina i nomi inventati, a volte, sono più somiglianti. E perché, più andiamo a fondo di noi stessi, più scopriamo di non essere noi stessi».
Questo del complesso rapporto con la realtà dei fatti che si raccontano, gli scrittori lo conoscono benissimo, persino quelli che puntano sull’intreccio e sulle trame “inventate”, gli scrittori di plot, come si dice.
Eppure non potrebbero produrre nemmeno una riga decente, degna di restare intendo, se non mettessero in gioco se stessi e quello che di profondo e privatissimo li ha spinti a narrare proprio quella storia e nessun’altra. Personalmente ne ho avuto una prova ulteriore con questo libro, affrontando la scrittura cosiddetta autobiografica.
A un certo punto “l’amico scrittore” interrogandosi proprio su quanto si sia costretti a essere fedeli al vero, quando si scrive autobiografia, conclude: «Neanche un po’ naturalmente, non ci chiamiamo mica Churchill, tu e io» e intendeva dire che, se non ci si pone come testimoni della Storia, si è liberi di inventare quanto si vuole perché, paradossalmente, per rendere l’autenticità di certe situazioni e di certi sentimenti, persino quando si scrive di sé stessi, a volte è più efficace un’invenzione che va sinteticamente al cuore di ciò che nella vera vita ha richiesto molto tempo e infiniti dettagli per accadere.
L’amico scrittore
E siamo così tornati al personaggio dell’amico scrittore, centrale e laterale a un tempo, protagonista di una cornice che si alterna ai vari capitoli e che mi ha dato modo di riflettere sul fare letterario da due prospettive: quella femminile mia e quella maschile sua.
Anche questa figura, come tutte le altre, è ricalcata su una persona realmente vissuta, la cui drammatica vicenda umana mi ha segnata in modo indelebile essa pure, ma per quel complesso gioco della scrittura, per cui siamo e non siamo noi stessi quando finiamo nelle pagine di un romanzo sia pure autobiografico, si è allargata ad accogliere in sé altre vicende e altri scambi con varie figure di scrittori altrettanto per me significative.
Vorrei poi infine affrontare una questione, che riguarda i gatti. Gli amici gattari si sono messi in allarme: ma come, un libro sui cani da parte di una come te che condivide la quotidianità anche con quattro bellissimi micioni? Rassicuro qui subito tutti. Gatti ne passano parecchi in queste mie pagine, anche se ufficialmente sono dedicate ai cani.
Dalla gatta storica Topazia, al rosso Mandarino, a Sciuscià, agli attuali Bonnie e Clyde e Bettina, all’adorata Gingerina scomparsa da poco, la mia vita è sempre stata abitata anche da loro.
Ma trattasi di creature molto sicure di sé e abbastanza sbruffone da fregarsene, garantisco, di avere un libro a loro dedicato. E così non mi resta che augurarvi buona lettura, se vorrete farlo, sperando di trovarvi complici nel mio sfrenato amore per gli animali.
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