Chi ha ascoltato il discorso efficace e spesso divertente di Barak Obama alla convention democratica di Chicago, non può non essere stato colpito da un passaggio. Parlando della confusione e del rancore che regna nella sfera pubblica, il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti ha detto che viviamo in una «cultura che premia le cose che non durano: i soldi, la fama, lo status, i likes. Ci chiudiamo dentro muri e steccati e poi ci stupiamo di sentirci sempre più soli. Non ci fidiamo più del prossimo perché non prendiamo il tempo per conoscerci e, nella distanza che creiamo tra di noi, si insinuano i politici e gli algoritmi che ci spingono a caricaturizzare gli altri, a prenderci in giro, ad aver paura l’uno dell’altro».

Poco prima aveva anche affermato che le camicie a scacconi da boscaiolo di Tim Walz, il candidato per la vicepresidenza, non venivano da un consulente politico ma dal suo armadio perché le indossa davvero. Ma stai a vedere, mi sono detta, che sta veramente cambiando il vento e che in politica come anche nella società stiamo finalmente tornando a capire la differenza tra contenuti e la fuffa? Tra il vero e il falso? Siamo veramente all’inizio del declino della comunicazione polarizzante da social?

Possiamo solo sperarlo. D’altronde la speranza pare stia tornando di moda a quanto ci dice Michelle Obama, che alla convention ha preceduto il marito con un discorso geniale da far invidia a Shakespeare nel suo celeberrimo monologo di Enrico V alla veglia di San Crispino. La ex first lady ci ha invitato a combattere anziché lamentarci. Combattiamo allora. E visto che credo che i musei siano strumenti indispensabili per aiutare i cambiamenti sociali, mi sono chiesta in che modo possano aiutare.

L’età dei content creator

Forse e in tutta onestà, più che aiutare, i musei hanno contribuito al problema. Da anni, infatti, musei grandi e piccoli (anche il mio) spendono tempo e risorse per creare contenuti sui canali social nel disperato tentativo di attrarre quel pubblico che sembra sempre meno interessato ai musei. Un tentativo che si è trasformato in una gara a chi si inventa i contenuti con più like e partecipazione. Non bastano più i curatori, i restauratori e gli stagisti che raccontano le opere in 30 secondi; siamo passati al reclutamento di influencer e content creator, che ci parlano dei fatti loro davanti a capolavori strepitosi. È il caso della National Gallery di Londra che quest’anno compie 250 anni e per celebrare il magnifico compleanno e arginare un calo di pubblico di oltre il 48% negli ultimi 4 anni ha assoldato un plotone di giovani influencer dagli interessi più disparati. Sul canale di Instagram del museo sfila la Lizzie Acker del programma Great British bake-off che produce cupcake ispirati ai quadri di Van Gogh e mentre si lamenta che i musei le fanno paura perché è dislessica e non ci capisce niente, si sente il ceramista Adam Johnson riprodurre mini versioni delle ceramiche che vede nei dipinti esposti; poi seguono il colloquio surreale del comico Christian Brighty in costume ottocentesco, l’artista di strada Charity Kase che si dipinge la faccia come i girasoli di Van Gogh, o la linguista Sophia Smith Galer che ci trascina nella etimologia dei nomi dei pigmenti. Ce n’è per tutti i gusti.

Ma qualcuno non è rimasto soddisfatto della poca attenzione rivolta alla pittura, perché davvero in questo barrage serrato di parole, riprese, effetti sonori e musica, i quadri a fatica si vedono e soprattutto non se ne parla. Kathleen Stock del Times di Londra, ha criticato il progetto comunicativo del museo perché a suo avviso tutto quel chiasso non serve ad avvicinarsi all’arte, ma semmai ad allontanarsene sempre di più poiché l’unica cosa necessaria per capire un dipinto è poterlo guardare indisturbati per ore. Secondo la critica londinese banalizzare l’esperienza artistica rendendola istantanea non serve a promuoverla; al contrario, la svilisce.

La trappola

In questa trappola sono caduti tutti i musei. Abbiamo tutti pensato che rendendoci più facili e immediati avremmo incoraggiato il pubblico dei recalcitranti. Trascinati dall’ubriacatura social abbiamo creduto che per essere popolari bisognasse essere stupidini e superficiali. Facciamoli entrare questi giovani e poi gli spiegheremo, ci siamo detti, non capendo che chi segue i musei sui Instagram o su Tiktok forse nei musei non ci è mai entrato e se lo ha fatto è stato solo per farsi un selfie di fronte ad un’opera già fotografata da qualcuno più famoso.

Cosa fare allora per tornare a un mondo in cui i contenuti e la sostanza valgono ancora qualcosa? Come farci promotori di questo cambio di passo? Forse possiamo tornare a raccontare e a far capire guardando? E se abbassassimo il volume dei nostri canali social e spendessimo un po’ meno in influencer e un po' più risorse nei servizi educativi per assicurare una presenza nelle scuole a (re) insegnare la storia dell’arte? Pare troppo autoritario, stantìo, addirittura vecchio? Non la pensano così eminenti artisti e personalità della cultura britannica del calibro di Sonia Boyce, Anthony Gormley o Grayson Perry, firmatari di un movimento chiamato Art History Now che promuove la reintroduzione dello studio della storia dell’arte nelle scuole. Per loro, come per tanti altri, l’incontro a scuola con le opere dei grandi maestri è stato decisivo per capire chi essere e cosa diventare. Nel manifesto della campagna di promozione si legge che in un mondo basato sulle immagini, la possibilità di decifrarle e capirle rende liberi di pensare in maniera autonoma e per far questo la conoscenza della storia dell’arte è importante. Anche la cittadinanza passa dalla scuola e a chi si preoccupa di identità ricordiamo che non c’è maggiore senso di appartenenza che la Cultura con la C maiuscola come l’arte. Forse, per chi opera nei musei, il tempo è arrivato di spegnere i social e di riavvicinarsi con convinzione alla lavagna. Creiamo una comunità sì, ma di discenti più che di follower. 

© Riproduzione riservata