Dopo aver vinto la maratona di Berlino dello scorso anno, chiusa in appena 2:02’:42’’, a Eliud Kipgoge era stato chiesto cosa avesse mangiato quella mattina. La sua risposta: «Porridge d’avena». E qual è il tuo cibo preferito, ha insistito la dietologa di fronte a lui. «Porridge d’avena», ha ribadito ridendo il due volte campione olimpico, che a Parigi parteciperà alla quinta edizione dei Giochi.

Per essere precisi, più che al tipico prodotto britannico Kipgoge si riferiva probabilmente all’ugali, un alimento a base di avena che accompagna con carne di manzo magra, oppure con managu, una verdura molto simile agli spinaci, o kale, una sorta di cavolo che cresce in Kenya. La sua dieta è per lo più a base di carboidrati, la benzina dei corridori, nutrendosi spesso con il pane kaptagat e la focaccia chapati da condire con i fagioli. Alimenti che dovrebbe ritrovare nel reparto “Africa” che aprirà al Villaggio Olimpico.

Giochi al passo con i tempi

Ci sarà anche un padiglione dedicato alla cucina caraibica, uno per quella asiatica, ovviamente francese e uno che proverà a sintetizzare le migliori ricette internazionali. Spesso associata a piatti troppo articolati, minimalisti e oltretutto costosi, quella francese esce dal concetto di cucina popolare.

L’opposto di come gli organizzatori di Parigi 2024 vogliono presentarsi a questa edizione. I Giochi Olimpici rappresentano un’opportunità e, allo stesso tempo, una sfida enorme. A iniziare dalla copertina. La rivoluzione architettonica a cui è stata sottoposta la capitale transalpina è plateale, nonostante le problematiche che si è trascinata dietro.

Per la città e i luoghi circostanti dove si terranno gli eventi sportivi sono sorti 80 ristoranti pop-up, uno più uno in meno, pronti a sfamare circa 30mila commensali al giorno. Molti di più quelli che si siederanno al Villaggio Olimpico, aperto giorno e notte e gestito dagli chef Stéphane Chiceri e Charles Guilloy. Che promettono: niente foie gras, «perché il benessere degli animali è all’attenzione di tutti», e niente avocado, «perché vengono importati da molto lontano e consumano molta acqua». Nel rispetto dell’ambiente, proporranno patate dolci con za’atar, humus e chimichurri, insieme a un’insalata di pane all’Almado. Un diktat che ben spiega la direzione che si vuole dare ai Giochi.

Parigi intende mostrarsi all’avanguardia e attenta alle problematiche contemporanee. Si aprirà al mondo accogliendo i suoi piatti, come quelli della tradizione mediorientale: araba, con la cucina halal, ed ebraica, con un menù kosher. Verranno replicati piatti asiatici come il maiale tritato e riso thai al basilico, da scambiare con quello basmati, e il cavolfiore e patate al forno con una spruzzata di curcuma. Dall’Africa maghrebina ruberanno il chakchouka, ossia peperoni saltati in padella, cipolla e pomodoro.

Oltre a questo, è l’attenzione ad alcune tematiche che rende questa Olimpiade diversa dalle altre. La politica è chiara: zero sprechi; riciclare di tutto ciò che viene utilizzato in cucina; raddoppiare i prodotti vegetali per dimezzare le emissioni di CO2; ridurre al minimo l’uso della plastica; inserire almeno il 10 per cento dei lavoratori da programmi di integrazione professionale; puntare sulla filiera corta: l’80 per cento dei prodotti deve essere francese, di cui almeno un quarto entro 250 chilometri da Parigi, con il 30 per cento degli alimenti biologici.

Storie di cibo olimpico

Paragonata all’Olimpiade parigina di cento anni fa, la differenza è abissale. All’epoca i carboidrati erano esclusi dalla dieta degli atleti, che puntavano piuttosto su un piano alimentare ricco di proteine. Carne, per lo più, che veniva mangiata in quantità oggi improponibili. Nel 1936 a Berlino, prima di una gara gli sportivi considerati pesanti era soliti mangiare tartare di manzo, o del fegato crudo tritato, del formaggio fresco condito con olio e fino a quattro uova. Quelli con un peso inferiore, invece, optavano per una bistecca, o una cotoletta, delle costolette di maiale, roast beef o pollame.

Nel complesso, la metà delle nazioni partecipanti consumava più di 800 grammi di carne al giorno, mentre il 38 per cento ne assumeva una quantità compresa tra i 500g e gli 800g. Giusto quattro compagini permettevano di mangiare più di 250g di pasta, mentre una decina di federazioni distribuivano 400g di pane per ogni persona. Solo negli anni Settanta, grazie alle evidenze scientifiche, si è iniziato a vedere il carboidrato con occhi diversi, senza considerarlo un alimento nocivo ma, al contrario, l’energizzante migliore per chi pratica sport e brucia parecchie calorie. Il problema non si era posto all’edizione di Londra, nel 1948.

Era da poco terminata la guerra e la crisi in cui navigavano i paesi europei era talmente grave che le federazioni erano obbligate al razionamento alimentare. Ogni storia è figlia del suo tempo, d’altronde. Basta tornare a Roma 1960, organizzata in pieno boom economico. Ad aumentare era stato anche il numero degli atleti e quindi dei pasti, per cui costruiti dieci ristoranti specializzati: uno internazionale e nove di cucina etnica. La maggior parte dei piatti era composta da cibi freschi, ad eccezione della prima colazione che prevedeva anche corn flakes e fiocchi d’avena.

Quattro anni dopo, ai Giochi di Tokyo, la cucina giapponese era uscita dall’oblio facendosi conoscere al mondo grazie alla vittoria della sua nazionale femminile di pallavolo. Il loro allenatore aveva suggerito una dieta, polpette di riso e pesce, che poi venne esportata cambiando la concezione che si aveva sui cibi nipponici.

Un qualcosa di simile accadde un paio di decenni più tardi, alle Olimpiadi di Seul del 1988, il comitato organizzatore aveva puntato proprio sui propri prodotti per autopromuoversi: da allora, il tradizionale kimchi è stato apprezzato anche al di fuori della penisola asiatica. Era il tempo in cui la scienza veniva interpellata con maggiore assiduità, per cercare il giusto equilibrio tra i pasti e le prestazioni sportive.

Le Olimpiadi di Los Angeles (1984) possono essere considerate un punto di svolta. Non solo per l’introduzione di bevande isotoniche da prescrivere ai corridori che percorrevano lunghe distanze, ma anche per via delle lamentele di chi voleva assumere cibi più sani, come yogurt e latte magro, verdure crude o al vapore, pesce, tutti prodotti a basso contenuto di grassi. Il rapporto finale del Comitato olimpico suggeriva il consulto di specialisti prima di stilare un menù per gli atleti, una richiesta simile a quella avanzata ad Atlanta nel 1996. I primi effetti si sarebbero visti già nell’edizione successiva, a Sydney, con l’introduzione di un sito online in cuierano contenuti piani alimentari, e nel 2008 a Pechino, con la nascita di un comitato internazionale di revisione dietetica.

Il cibo è una questione di reputazione, un’arma di soft power. Ne è convinta la ministra del Turismo francese, Olivia Grègoire, preoccupata dalle sfide esterne che minacciano la tradizione culinaria transalpina, allo stesso modo dello chef Alain Ducasse, riconoscendo che «è in atto una nuova sfida internazionale e siamo stati lenti nel farne parte. Il talento è ovunque. Dobbiamo svegliarci e rendercene conto». Una missione in cui è chiamato in causa anche lui, dato che gli è stata affidata la cena di apertura dei Giochi organizzata per i capi di Stato. Un’Olimpiade può contribuire a diffondere la cultura culinaria di un paese, oltre che la sua visione del mondo.

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