Hai vent’anni, venticinque: corri all’impazzata per diventare quello che sogni di essere. Ce la fai, talento o fortuna, le cose vanno proprio come desideravi. Poi hai trent’anni, quaranta: ti fermi, ti guardi indietro e fai i conti con ciò che ti sei lasciato alle spalle. La famiglia e gli amici, tutti i rapporti interrotti. I silenzi, l’incomprensione, il senso di colpa, l’invidia: le origini da cui senza ammetterlo sei fuggito, che tornano a chiedere conto dello strappo – necessario, eccessivo? – col quale il desiderio si è fatto stile di vita, conto in banca, posto nel mondo. Non più parte di un regno, e mai davvero parte dell’altro: le autorealizzazioni più importanti si portano dietro sempre uno scarto indicibile, un punto cieco. Diventiamo adulti davvero quando ci rendiamo conto che l’ideale per cui ci siamo giocati tutto era anch’esso limitato, imperfetto, non così giusto per noi? Quando da qualche parte qualcosa si spegne, quando il velo si scosta e non sappiamo più se ne è valsa la pena?

Sono questi i temi principali che animano le pagine del nuovo romanzo di Daniele Mencarelli, Brucia l’origine (Mondadori), arrivato dopo il grande successo della trilogia autobiografica (incluso Tutto chiede salvezza, amatissimo anche nella trasposizione Netflix) e Fame d’aria, primo racconto dell’autore in terza persona. La storia è quella di Gabriele Bilancini, romano del Tuscolano cresciuto tra l’ombra degli acquedotti e ora designer di fama mondiale a Milano, dove è diventato il pupillo del grande Franco Zardi e il fidanzato della figlia Camilla. Dopo anni di (non casuale) lontananza dai luoghi dell’infanzia, e molte bugie dette per lenire il senso d’inadeguatezza e la vergogna per le umili origini, Gabriele si vede costretto a tornare a casa per alcuni giorni dalla madre Tania, dal padre Mauro, detto Er pesce, meccanico di motorini, e dalla sorella Giorgia. Ma anche da Vanessa, il primo amore, e da Marcello, Cristiano, Francesco, gli amici della prima parte della sua vita, tutti preda di frustrazione, fallimenti, rinunce e psicofarmaci.

La società, la cultura, la politica

In questa sorta di malinconica auscultazione soggettiva e collettiva, in questa grande, scomposta seduta di terapia di gruppo sospesa tre le due capitali italiane, l’ufficiale Roma e la carismatica Milano, si scatena una travagliata (e spassosa) resa dei conti: emotiva, di classe, culturale, politica. Perché Gabriele, anche se non vorrebbe, si rispecchia in ognuna delle persone che hanno fatto parte della sua vita: in ognuno di questi rapporti vede qualcosa di ciò che ha conquistato andando via, ma soprattutto di ciò che ha perso. L’amico diventato fascista, quello sprofondato nella routine senza bagliori, il calciatore mancato che non ha più ragioni per vivere e la fidanzatina di un tempo pronta a riprovarci: le vite degli altri sono rimaste immobili, accettando tutte, chi prima e chi poi, quella specie di editto di natura che in certe periferie – interne o esterne alla città – ci si tramanda di generazione in generazione. Sono rimaste immobili e, al ritorno di Gabriele, vedono meglio la loro immobilità, risentendosene. Vedono, e rinfacciano, la distanza feroce che il sogno di uno ha imposto a tutti.

Perché Gabriele ha avuto una spinta diversa: forse coraggio, forse immaginazione. Ma se nasci in un posto molto lontano da quello a cui senti di appartenere è difficile che tu possa diventare te stesso senza far male a nessuno. Brucia l’origine è un romanzo sui dilemmi tipici del mezzo della vita, condotto col miscuglio linguistico di lirismo e mimesi popolare tipico di Mencarelli, una commedia dalle venature dolenti, che scopre negli inciampi di storia qualunque l’eco delle grandi domande di tanti di noi. Una riscrittura vitale, corporea, e calata in questa nostra epoca smarrita, di quei modelli e stereotipi – lavoro/famiglia, vincere/perdere, nord/sud, Roma/Milano, destra/sinistra, progresso/reazione –, coi quali ancora nutriamo il nostro sguardo e le nostre relazioni. Ed è soprattutto un romanzo sull’idoletto retorico dell’ascensore sociale, dell’ascesi di classe, sorta di prodigio evocato senza mai approfondire le sue ombre, le sue perturbazioni insolubili.

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Un romanzo anche spirituale

I soldi fanno o non fanno la felicità – una delle domande che ossessivamente tornano nelle conversazioni tra Gabriele e i suoi amici, e lasciamo al lettore il gusto di concordare con una o l’altra delle risposte in campo. In Mencarelli, la cui vastità di conoscenza diretta delle faccende del mondo è nota a chiunque abbia letto i suoi lavori, le prospettive come sempre si stratificano: questo è un romanzo famigliare, sociale, ma anche, a ben vedere, spirituale. Gabriele non parla mai di religione, conversioni o rapporto col divino, eppure, se lo facesse, non risulterebbe strano. Perché, mentre le pagine avanzano, si ha la sensazione che la crisi che lo smembra – una crisi strettamente contemporanea, o millennial, che dir si voglia, fatta di performance e competizione più o meno esplicita, di una fame che si ripiega su sé stessa – abbia molto a che fare col senso che manca. Il romanzo è percorso da una tensione che osserviamo sotto forma di ambizione e volontà di riscatto, ma che ha anche una qualità altra nel suo non poter mai essere addomesticata dalle cose del mondo. Brucia l’origine è un romanzo sì limpido, che invita il lettore a sostare piacevolmente nella sua lingua e nelle sue immagini, ma su più livelli: schiude, a seconda di chi se lo trova tra le mani, prospettive, questioni diverse. Pudico verso la sua posta in gioco più alta, persino mistica si potrebbe dire, che cela con estrema misura, tra battute in romanesco e stilemi del ritorno in terra natìa.

L’odio di classe

Attorno a questo cuore esistenziale (occulto) del libro orbitano però, in primo piano, affondi su molti temi, attuali e incendiari, come la radicalizzazione delle fasce più umili e l’odio (di classe) verso politicamente corretto e tutela della minoranze. È il personaggio di Cristiano, razzista, omofobo, eppure impossibile, per il lettore, da condannare del tutto, a farle detonare: «Tu sei quello che ha visto il mondo, che ha avuto successo», dice a Gabriele, dopo un episodio infelice verso un venditore ambulante, «noi stronzi semo rimasti qui. E che ce voi fa’? Semo rimasti ignoranti, se semo pure incattiviti. Io vojo esse cattivo, perché a me, a mi’ padre e a mi’ madre, ai mi’ fratelli, nessuno c’ha mai difeso, nessuno. Vojo esse l’esatto contrario de quello che siete voi. Voi siete de sinistra? Allora io so’ de destra. Sì. Anzi. Te dico de più. So’ fascista. Tanto per quelli come te resterò sempre brutto, sporco e cattivo. Allora er cattivo lo faccio veramente».

Gabriele ha cercato il suo posto al sole, ma alle sue spalle ciò che è rimasto ha più o meno le sembianze di un deserto, mesto e sfiduciato. A lungo è riuscito a far finta di nulla, ma nei giorni del romanzo la rimozione non regge più: l’immersione nei rapporti recisi unisce di nuovo i punti, ribadisce un’appartenenza, lo mette di fronte al disegno più grande. Perché non sono certo solo le relazioni che abbiamo la forza, la voglia, o la possibilità di coltivare a darci forma: in quest’itinerario incerto della riconciliazione Gabriele s’imbatte in dichiarazioni impreviste ed epifanie (come quella del sogno a cui, scopre, suo padre ha rinunciato) che, qui e là, sembrano confermare come l’attraversamento dei territori scomodi, quando c’è l’amore di mezzo, è sempre una fatica che vale la pena di sobbarcarsi.

La specificità della letteratura

Non è romanzo di grandi risposte, questo, ma è un romanzo che ricorda la specificità della letteratura, l’importanza di continuare a praticarla e distinguerla dagli altri campi della comunicazione e del linguaggio. Il dilemma personale e politico di Gabriele, così come quello di tanti di noi, potrebbe non risolversi mai: eppure è possibile, grazie a scrittori generosi come Daniele Mencarelli, approfondire quel nodo, sentirlo di più, sentirlo meglio, accettare lo sfumarsi dei confini tra quelle partizioni che altrove ci ripetiamo essere nettissime, invalicabili, certe. Anche da qui, anche dalla pratica, attiva o passiva, della letteratura, dallo scrivere e dal leggere, può passare la convivenza – un po’ meno turbolenta – con le ferite originarie e con quelle che accumuliamo nel tempo: dal prendere dimora nelle nostre contraddizioni e nei conflitti che a volte neanche ammettiamo a noi stessi, continuando a cercare le parole per dire ciò che manca, per descrivere le traiettorie reali della nostra felicità, i pesi e i rapporti tra le nostre forze interiori. Esponendoci ancora, e ancora, ai punti oscuri dove la tenerezza si mischia al rancore, il desiderio all’irresponsabilità, il bene alla privazione. E dove la nostra storia di oggi può ricongiungersi a quella di ieri, escogitando legami imprecisi, storti, eppure fondamentali.

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